Intervista a Carlo Colombara dopo il successo ottenuto, assieme a Dimitra Theodossiou, con L’Attila di Giuseppe Verdi al teatro Massimo Bellini di Catania
Lei torna ad Attila dopo molti anni: che rapporto ha con questo personaggio?
Torno ad Attila per l’esattezza dopo 12 anni, quando lo cantai a Vienna con un’altra prestigiosa collega: Julia Varady. Ho un ottimo rapporto col personaggio perché ho avuto sempre grandi successi. È una parte complicata per un basso, veramente basso, poiché è un ruolo abbastanza acuto. L’aria e la cabaletta sono i punti più difficili da superare, proprio per questo motivo molte volte vengono scritturati cantanti che non sono bassi ma bassi-baritoni. Però la parte è scritta per un basso, è bella cantata da un basso ed un basso ha molte più sfumature di un basso-baritono, quindi difendo la mia categoria.
Verdi è il suo compositore di riferimento, quali sono i ruoli verdiani che preferisce cantare?
La risposta è scontata: qualsiasi basso le risponderà sempre Filippo II. Ma a parte Attila, direi che mi piace tutto il basso cantabile da Silva, Padre Guardiano, Fiesco… Zaccaria l’ho cantato molte volte però preferisco più i personaggi da interpretare che quelli puramente vocali. Però se mi chiede uno su tutti certamente Filippo II.
Nella sua biografia dice di aver iniziato dopo aver sentito la Carmen quando aveva 15 anni: cosa ha provato quando ha debuttato il ruolo di Escamillo?
Avevo paura perché essendo un basso non è proprio la scrittura migliore, non ho pensato molto a quando avevo 15 anni, in quel momento ero preoccupato di fare bene i fa naturali. Cantare Escamillo però è stato emozionante, è stata una sfida importante come quando ho cantato Scarpia in Tosca.
In suoi 28 anni di carriera ad alto livello quali sono i ricordi più emozionanti che ha?
I miei ricordi non sono legati ad una cosa in particolare ma sono legati ad un periodo. Diciamo che in quasi 30 anni di lavoro ricordo i bellissimi anni della Scala, dove ritornerò da questo anno con tre opere: il periodo di Muti dove ho cantato per 13 anni consecutivi. Ricordo con piacere il periodo del teatro di Zurigo, nel quale ho cantato per 18 anni quando Pereira era il sovrintendente. Tante piccole cose: il piacere di lavorare con tanti grandi artisti, grandi colleghi anche qualche grande regista, che non sono tanti.
La Turandot a Pechino è stata una cosa speciale?
Fu una cosa faticosissima. Io mi ricordo un caldo infernale e l’umidità, cantavamo alle 10 di sera con una temperatura di 38 gradi ed il 90% di umidità con tutti quei costumi pesantissimi, però, a parte i problemi che ci sono stati, è stato un grandissimo avvenimento dal punto di vista mediatico.
Fra tutti i grandi direttori da cui è stato diretto, quali sono quelli di cui conserva un ricordo migliore e se vuole dire quelli con cui non si è trovato in sintonia?
I direttori li divido in due categorie: quelli che amano l’opera e quelli che non la amano. Mi sono trovato male con quelli che, io ho capito, non amano profondamente l’opera, di conseguenza mettono di malumore i cantanti. Non sono tantissimi però ve ne sono tanti in giro. Stranamente, forse non stranamente, la particolarità è che i più grandi direttori non mi hanno mai creato problemi, direi che ho avuto molti più problemi con quelli piccoli a cui non voglio dare soddisfazione neanche di nominarli.
Di quelli grandi possiamo far prima a nominare quelli con cui non ho cantato. Il primo grande che ho incontrato, di cui conservo uno splendido ricordo è stato Carlo Maria Giulini. Con Muti c’è stata una stima reciproca enorme, per quanto dicano che il carattere di Muti sia particolare, quando stima un cantante lo aiuta: non dico che diriga per la tua voce, ma viene incontro alle tue esigenze ed è totalmente da sfatare questo mito del direttore nero alla Toscanini. Ho ottimi ricordi di Metha col quale ora ritorno a Milano con L’Aida. Pappano è straordinariamente bravo, direi che fra i giovani è il più grande direttore che c’è, senza ombra di dubbio.
Ed i colleghi e le colleghe cantati con cui si è trovato meglio?
Non ho mai avuto uno screzio con un collega. Adoro i miei colleghi. Ho sempre avuto ottimi rapporti anche coi miei colleghi bassi che non è molto facile in teatro. Ho sempre talmente amato il lavoro del cantante che ho sempre rispettato anche quelli che non mi sono mai piaciuti e mi hanno portato via delle scritture.
Come non citare Pavarotti, Domingo e Kraus. Fra le donne direi la Dimitrova prima su tutte come rapporto sia umano che scenico. Poi il piacere di cantare accanto a delle grandi voci come Aprile Millo. Luciana D’intino è stata una collega ed un’amica carissima. Potrei citarne tantissime e non vorrei fare un torto a nessuna, ma se devo citare un nome dico la Dimitrova.
Come ha visto in questi anni cambiare il mondo dell’opera?
Purtroppo il mondo dell’opera, soprattutto in Italia, e, mi dispiace dirlo, si vede molto chiaramente in questo teatro meraviglioso che è quello di Catania, non è che soffre di una crisi vera ma è mancanza di persone competenti ai vertici. Se solamente a Roma dove si hanno le redini della cultura ci fosse qualche persona che incominciasse ad ispezionare i teatri come si deve, a mettere le persone giuste al posto giusto, a vedere dove sono gli sprechi, dove finiscono i diritti ed incominciano i privilegi (però questa è una persona non esiste nella politica italiana perché non sarebbe un politico) allora le cose ricomincerebbero perbene. La crisi c’è in tutto il mondo ma solo in Italia è così grave. Vuol dire che non c’è una volontà politica di fare il bene dell’opera.
Nel teatro Bellini di Catania come si è trovato?
Io in questo teatro sono venuto tre volte: una volta nel 1990, una volta nel 2001 per un bellissimo Simone ed ora, l’ho visto piano piano andare giù ed in quest’ultima produzione ho visto veramente un teatro allo sbando. Mi dispiace molto perché è pieno di eccellenze e meriterebbe molto di più, sia per il pubblico perché è un pubblico fedele nonostante tante robacce che avranno visto ed anche per chi lavora perché non si può lasciare la gente a se stessa come stanno facendo.
Lei si è affermato interpretando ruoli drammatici, ma ci sono ruoli brillanti che le piacciono?
Nella mia indole non ci sono questi ruoli, però devo dire che quando mi han proposto Don Pasquale, l’ho cantato in Spagna, mi sono divertito come un matto, quindi per me è come quando mi invitano alle feste, io non sopporto andare alle feste però, quando ci son dentro, mi diverto come un pazzo. Probabilmente dovrei cominciare a far le prove così la cosa incomincia a piacermi, per Don Pasquale mi sono divertito tantissimo ed anche il pubblico, quindi funzionerebbe. Mi hanno proposto Dulcamara ma io, proprio per quello che ho detto prima, ho detto di no, due-tre volte. Mustafà me lo propose, per un CD con la Kasarova, l’RCA l’anno prima che fallisse, quindi non feci in tempo ad inciderlo. Il Baron Ochs lo canterei se solo avessi il tempo di studiarlo in tedesco: in tedesco canterei tantissime cose, ci vuole il tempo per poterlo studiare, perché non mi piace far le cose a metà, se lo faccio lo faccio bene.
Nella sua biografia è scritto che lei cantò in Die Meistersinger von Nürnberg alla Scala di Milano.
Ho fatto un piccolo ruolo con Sawallisch.
Canterebbe Wagner, visto che gli Italiani non si cimentano in questo repertorio?
Il problema per noi Italiani è che quando andiamo all’estero e cantiamo un’opera in francese o in tedesco ci rompono le scatole, ci affiancano cinque persone per insegnarci la pronuncia perfetta e questa cosa ci frena un po’. Non so neanche perché noi passiamo da cantanti che non possono fare queste opere. Noi sopportiamo tante porcherie dagli stranieri e vorrei sapere qual è il motivo per cui quando si fa un’opera italiana la possono cantare cani e porci, quando si fa un’opera tedesca la possono cantare i tedeschi, quando si fa un’opera russa la possono cantare i russi, e quella francese la cantano i francesi: fortuna vuole che i francesi non hanno voci ed è l’unico motivo per cui ancora cantiamo noi. Noi italiani, che siamo un popolo fantastico però idiota, prendiamo da tutte le parti i cantanti e non ci imponiamo a livello internazionale.
Comunque mi son tolto una soddisfazione ho inciso il finale di Die Walküre, in un CD che sarà presentato all’expo di Milano e penso sia venuto molto bene.
Oltre a cantare lei è anche un insegnate: trasmettere la sua arte ai giovani che sensazione le da?
Inizialmente avevo un gran timore di insegnare, perché è una responsabilità enorme, quindi ci sono andato con le molle coi primi cantanti. Ho dato due-tre lezioni private gratuite, quando ho visto che riuscivo ad ottenere dagli allievi quei passi in avanti, mi sono detto: ma perché non provarci? Lo voglio fare adesso perché è molto comodo farlo quando si va in pensione o non si canta più, quando la voce si rompe e la prendi come un’alternativa. Ritengo invece sia bello associarlo alla carriera perché puoi dimostrare quello che deve fare il cantante. Se devo insegnare come prendere un fa acuto e poi smorzarlo devo saperlo fare: devo farlo con la voce giusta, ferma ed onesta, una voce che non abbia ancora dei problemi. Per questo io penso che sia molto importante per i cantanti quando sono ancora in carriera dedicare una piccola parte dell’anno ad insegnare ai giovani. A me piace da morire perché quando vedo che riescono ad ottenere i risultati è come se avessi cantato io.
Il 2015 sarà per lei un anno impegnativo fra Milano, Parigi, Tel Aviv, l’uscita del CD…
Ci sarà anche l’Arena! È un bel 2015, un calendario pieno e per un cantante è una bella soddisfazione soprattutto in periodi di crisi come questo.
Per concludere: lo farebbe un concerto di tre bassi: Colombara, Scandiuzzi e Furlanetto?
Certamente che lo farei. Lo farei perché direi che siamo tre veri bassi (e non bassi-baritoni come ci sono oggi) verdiani ed italiani “sopravissuti”.
Domenico Gatto