Jonas Kaufmann. Concerto. Peralada

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Festival Peralada 2014
JONAS KAUFMANN – Orquestra de Cadaqués. Direttore: Jochen Rieder. Auditorio del Castello, 3 agosto 2014.

Excusatio non petita sul programma di sala, a firma di César Lòpez Rosell giornalista de “El Periodico” quotidiano spagnolo di larga tiratura: “Il risultato del fascino di Jonas (familiarmente, per nome n.d.r.) non è dovuto allo sfruttamento della sua prestanza fisica, né tantomeno ad un’operazione di marketing ben organizzata”. E dunque, come mai alcuni dei nostri (un po’ di sciovinismo non è mai di troppo) tenori in carriera che esibiscono voci sane, dotate di squillo, ben emesse e col Do acuto in tasca, non godono il successo del bel bavarese, seguito in capo al mondo da orde di fans di ogni sesso, nazionalità e colore?

Domanda retorica: di certo, e non me ne vogliano i due portati ad esempio, Marco Berti e Fabio Sartori, massicci detentori di un diaframma “alla Caballé”, non possono fisicamente competere con il romantico, blasé e finto trasandato, Kaufmann. Cosa gli debba costare, in termini di tempo almeno, mantenere la barba incolta sempre allo stesso livello, non è dato sapere. Si è mormorato, piuttosto, a Peralada di un cachet stratosferico, che per pudore si tace. Sette i brani in programma, più i bis accolti con prevedibile entusiasmo dal pubblico, per altro assai tiepido durante la parte ufficiale del concerto.

Un programma a dir poco curioso per le scelte, tutte operistiche, meno due dei tre Wesendock Lieder: “Schmerzen” e “Traume”, Lied che Wagner concepì per voce femminile. Le cicogne del parco dovevano esserne al corrente poiché hanno funestato l’esecuzione con il loro petulante gracchiare: “Sei vendicato, o Richard!”. Concerto infarcito da brani orchestrali, giusto per far riposare il solista, eseguiti un po’ alla buena de Dios dalla volonterosa Orchestra di Cadaqués diretta dall’accompagnatore ufficiale del bel Jonas, Jochen Rieder, che ci si auspica sia più abile al pianoforte. Tra gli altri, una versione sinfonica, con violino solista, dell’aria di Micaela spacciata per preludio all’atto terzo della Carmen.

Nell’economia del concerto, cronometro alla mano, ha fatto da padrona la parte orchestrale. Né le arie erano di quelle che possono esaltare il pubblico, specie se eseguite con il “brevetto” del celebre tenore: la tecnica “sussurri e grida”. Il titolo del film di Bergman dà l’idea di un canto in cui la voce, dal vivo e all’aperto avara di armonici, è costantemente in bilico tra suoni appena accennati, spacciati per pianissimi quando in realtà non sono nemmeno falsetti, e una vocalizzazione aperta, spinta che suona in gola. In difficoltà già sul La bemolle preso, come quasi tutti gli acuti, con portamenti dal basso, essendo il passaggio all’acuto risolto con suoni prossimi al grido. Il colore, a dire il vero, ci sarebbe: la qualità della voce è assai bella, il centro ha un fascino baritonale, seppure artefatto, e una naturale morbidezza.

L’arte del canto non è la cabala, però. La citazione non stupisca, poiché Kaufmann in concerto aggiusta a piacer suo il valore delle note, assecondato in questo caso specifico da una direzione che lo insegue lenta e morchiosa, in cui troppo spesso si perde l’intera linea melodica. Vezzo evidente soprattutto nelle arie di Verdi, dove non si può barare. Il recitativo che precede l’arioso “Ah si ben mio” de Il trovatore richiede un’incisività che non si risolve sospirando. Idem la scena che apre l’accampamento di Velletri della Forza: Kaufmann vi miete trionfi internazionali, ma la esegue con effetti risibili per chi ha in memoria Bergonzi, Carreras e Giacomini. Certo, Kaufmann piace e trascina le masse. Tanto di cappello: abbindolare il pubblico è arte di pochi.

Con Wagner le cose parrebbero andar meglio, poiché nello sprechgesang può giocare la carta del fine dicitore, ma né il brano di Siegmund dalla Valchiria “Ein Schwert verhiess mir der Vater” né, men che meno, “Amfortas! Die Wunder!” dal Parsifal, sono pagine dalla tessitura spericolata e particolarmente care al pubblico. Il quale, come anticipato, ha tributato un sucesso di stima all’inzio, salvo poi scatenarsi con i bis. Passabile il pucciniano “Donna non vidi mai”, seppure un po’ tirato; improponibile, al pubblico italiano almeno, il “Lamento di Federico” de L’Arlesiana, tirato via sbadigliando. Delirio, infine per le due arie di Lehar: “Se le donne vo baciar” da Paganini e “Tu che m’hai preso il cuor” da Il paese del sorriso. Ma anche in questo caso lo chansonier dalla triste figura, “La vostra musa è la malinconia“ direbbe la Contessa di Coigny, al paragone, non dicasi di Tauber e Wunderlich, di Schock o Gedda, con Max Raabe e la Palast Orchester, ne esce perdente.

Horacio Castiglione