Michele Mariotti dirige I Due foscari di Placido Domingo alla Scala di Milano

Michele Mariotti dirige I Due foscari di Placido Domingo alla Scala di Milano
Michele Mariotti dirige I Due foscari di Placido Domingo alla Scala di Milano

Michele Mariotti ritorna al Teatro alla Scala di Milano dirigendo uno dei titoli più attesi della stagione I due Foscari di Giuseppe Verdi, contando per il ruolo del Doge Francesco nientemeno che un Mito vivente dell’Opera: Placido Domingo

La direzione di Mariotti è parsa, sin dal preludio, di altissimo livello, cogliendo l’essenza della “tinta” verdiana, che in quest’opera lagunare ha un tono spesso teatro, dolente, nostalgico e capace di evocare lo scorrere inesorabile del tempo pur nelle stagnanti acque dei canali. Prezioso, in tal senso, l’incipit introduttivo del Doge e pure la cadenza della barcarola, anticipata con un tono mesto e sognante. Il piglio quarantottesco, per altro, non gli manca e coglie in pieno la veemenza, la disperazione e pure la frustrante impotenza dei tre principali protagonisti, i Foscari Francesco e Jacopo e la disperata Lucrezia Contarini, moglie e nuora, nonché figlia di Dogi. Mariotti ha poi una sensibilità straordinaria di porre al servizio delle voci, modulando idealmente l’ottima orchestra scaligera. Una lettura, insomma, piena di lirismo che ha reso appieno l’innegabile pathos drammatico che questa partitura possiede, senza cedimenti nel ritmo e nei momenti di maggior impeto. Ottimo pure il contributo del coro, istruito dal Maestro Bruno Casoni.

Placido Domingo è … Placido Domingo, un’icona. La sua vocalità, di una solidità e resistenza stupefacenti e con una ricchezza di armonici da lasciare sbalorditi, resta unica ed individuabile, al di là della sterile polemica sul fatto che sia un tenore prestato a ruoli baritonali. Certo le libertà che si permette, non solo agogiche, potrebbero indurre ad una eventuale censura, ma s’impone – parafrasando Macbeth – il rispetto e l’amore per il sommo artista, che di sicuro non ispira il terzo sentimento, la pietà, poiché la sua personalità in scena, il suo carisma non hanno prezzo. Che egli si realizzi e viva in palcoscenico, donandosi con estrema, totale generosità, è un dato inconfutabile. E finché il pubblico si spellerà le mani, si sgolerà a gridargli bravo e si affretterà ad assistere alle sue recite, ci si deve arrendere. In questo ruolo, specificamente, nella parte del vecchio padre, disingannato dal potere e ferito negli affetti più cari, egli ha modo di essere superlativo e nel contempo struggente. Il sommo artista emerge in tutta la sua autentica e straordinaria monumentalità.

Nel corso delle recite, a Domingo è subentrato Luca Salsi, baritono che ormai si impone nei teatri di tutto il mondo per la sana, robusta e schietta vocalità baritonale, cui si sommano un gusto ed una tecnica ragguardevoli e, buona ultima, una capacità interpretativa notevole in considerazione della ancor giovane età: ha appena varcato la soglia dei 40 anni! Seppure la vecchiezza imposta dal ruolo navighi contro la prestanza di una figura che non riesce a nascondere un fisico florido e giovanile, siamo finalmente di fronte ad un autentico baritono verdiano, completo su tutta la gamma, dotato di una voce baciata da Dio e, per giunta abile nel fraseggio e scavato nell’accento. Ne scaturisce un Doge autorevole, imperioso, ma anche capace di trovare i colori e le mezze voci imposte dallo spartito. Ottima prova, successo meritatissimo 

128_K61A8734 Luca Salsi

Valorosa Anna Pirozzi, pronta al doppio debutto sia alla Scala che nel terribile personaggio di Lucrezia Contarini, una della parti per soprano più complessa che Verdi abbia composto. Alla seconda recita a cui si è assistito, pur fornendo una prova di estremo riguardo, è parsa ancora un po’ titubante e forse intimorita da un pubblico che alla “prima” si è dimostrato inutilmente crudele nei suoi confronti. Si è andata affrancando già in corso di recita e, nel prosieguo delle recite, ha fornito prove via via più convincenti raggiungendo la totale padronanza della parte in un clima molto più rilassato. Pregevole nel canto spianato della sua cavatina: “Tu al cui sguardo onnipossente” ha affrontato con scioltezza l’agilità di forza della difficile cabaletta: “O patrizi, tremate”, proseguendo poi con convinzione drammatica e vocale nel resto dell’opera, risultando alla fine vincente in questa sua doppia sfida.

Ottima prova quella di Francesco Meli nel ruolo di Jacopo Foscari, dove ha sfoggiato il bel timbro tenorile, cesellando il fraseggio, ora nostalgico ora disperato richiesto dal ruolo dello sciagurato personaggio. 

Andrea Concetti, nel ruolo di Jacopo Loredano è parso adeguato alla parte del malvagio persecutore dei Foscari. Bella prova quella del soprano Chiara Isotton, Pisana e sufficiente il tenore Edoardo Milletti nella parte di Barbarigo. Completavano il cast gli allievi della Scuola della Scala: il tenore Azer Rza-Zade, un fante ed il servo pure tenorile di Till Von Orlowsky.

 Meglio sorvolare sulla “non” regia di Alvis Hermanis, che ha firmato anche le scene e che si ricorda, oltre che per la costante presenza di alcuni ridicoli mimi costretti a pose coreografiche di sapore cabarettistico, per la proiezione di tante “cartoline ricordo” di Venezia e per una serie di corporei leoni alati di San Marco mossi senza alcun senso nella scena del carcere; soprattutto noiosi i lunghissimi cambi scena in cui, alla riapertura del sipario, poco o nulla era cambiato. Sfarzosi, anche troppo, i pur bei costumi creati da Kristīne Jurjāne, che ha vestito tutti, domestici compresi, come se fossero in procinto di andare ad una serata di gala. Le luci, curate da Gleb Filshtinsky, infine, perennemente a giorno, hanno appiattito ulteriormente il tutto.

Domenico Gatto

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