Un debutto col botto quello di Ricci/Forte, un duo che da anni fa discutere e al contempo trionfa nel mondo del teatro di prosa, e che, per l’occasione, si cimenta nella messa in scena dell’ultimo capolavoro pucciniano.
Un allestimento questo di Turandot che svela tutte quelle che sono le caratteristiche peculiari della loro regia, i loro tratti distintivi, sebbene, se così si può dire, essi compaiano in forma più attenuata rispetto al consueto, senza espliciti intendimenti di rottura, quasi questo ingresso in campo lirico sia stato eseguito in punta di piedi.
La protagonista, che inusitatamente rimane in scena per tutto il corso della rappresentazione, non è altro che una bambina crudele che si rifiuta di crescere e, di conseguenza, vuole congelare la realtà circostante governandola secondo il proprio volere.
La scena è dominata dal colore bianco del ghiaccio, evocato anche dalla presenza di un enorme orso polare; la natura, rappresentata da una piccola serra curata ed innaffiata a dovere da Ping Pong e Pang, ma anche gli uomini stessi sono rilegati dal volere della principessa all’interno di enormi teche o gabbie; nel corso dell’opera i protagonisti vengono addormentati e risvegliati a comando, fatti riposare da alcuni mimi, guardiani della volontà di Turandot, su tavoli simili a quelli per le autopsie.
Centrale è la scena degli enigmi: la protagonista, chiusa in una delle gabbie, man mano che le sue certezze crollano si immerge in una pozza di sangue; di fronte all’amata Calaf scioglie gli enigmi, mentre attorno a lui si contorcono figure maschili che rappresentano i ricordi, i fantasmi dell’anima, il tormento dell’amore, ma anche la sua forza. Ecco dunque che alla fine del secondo atto le gabbie parzialmente cadono e l’ingresso della principessa nel mondo degli adulti e della realtà è ormai segnato.
L’idea della donna fredda ed altera che nasconde al proprio interno una psicologia da bambina mai cresciuta, terrorizzata dall’idea di soffrire, non è certo nuova, ma la resa scenica di Ricci/Forte la rende comunque attrattiva e non banale. Motivo centrale di questa analisi onirico/psicanalitica è quello della crudeltà: è ad esempio la stessa Turandot a sparare a Liù, i pretendenti sono, coerentemente con la lettura psicologica proposta, rappresentati da una serie di bambini di cui la principessa ordina una strage, la quale verrà eseguita direttamente sul palcoscenico in piena vista, sotto il riflesso impietoso di quelle luci fredde che sono una delle caratteristiche dell’intera rappresentazione.
Straordinaria la presenza scenica della Turandot di Irene Theorin che vigila attenta, con un sorriso davvero glaciale, su tutto il mondo circostante già prima che inizi la rappresentazione; notevole la solidità vocale che non teme l’acuto, ma evidenzia al contempo un robusto registro centrale, favorendo una prova di tutto rispetto, priva di cedimenti di sorta.
Meno convincente il Calaf di Rudy Park, dotato certo di un volume notevole, ma poco raffinato nel fraseggio e con alcuni acuti intaccati da un non gradevolissimo retrogusto gutturale.
Davinia Rodriguez è una Liù corretta, ma con qualche opacità nel registro grave e in quello centrale: veste l’abito da sposa a fianco del bravo e giovanissimo Timur di Alessandro Spina che veste, invece, quelli dello sposo.
Bene Andrea Porta, Gregory Bonfatti e Marcello Nardis nei panni dei tre ministri sempre in perfetta sintonia.
Con loro l’Altoum di Stefano Pisani, il Mandarino di Nicola Ebau e il Principe di Persia di Andrea Cutrini.
Bacchetta un poco fredda e asettica quella di Pier Giorgio Morandi alla direzione dell’Orchestra Filarmonica Marchigiana; va riconosciuta certo al direttore una puntuale attenzione alla partitura e alle sue dinamiche, ma la ricerca di sonorità spesso soffuse in uno spazio vasto e aperto quale quello dello Sferisterio non sempre gli ha giovato.
Buona la prova del Coro lirico marchigiano e dei Pueri cantores di Macerata.
Simone Manfredini