Non è stata indimenticabile questa Carmen che ha aperto la stagione al San Carlo, soprattutto per quanto riguarda la regia: si è avuta la sensazione che il regista Daniele Finzi Pasca non avesse preso il dramma troppo sul serio, dandone una lettura eccessivamente leggera e con qualche idea bizzarra di troppo. Malgrado ciò, il pubblico napoletano non ha fatto mancare caldi applausi ai protagonisti sulla scena e nel golfo mistico.
Finzi Pasca aveva lasciato una buona impressione al San Carlo nel 2011 con I Pagliacci poi ripresi l’anno scorso, e ora aveva tutto ciò di cui poteva aver bisogno per questa prima di stagione, da anni mai così attesa al San Carlo: sul podio si alternavano due direttori tra i più esperti in circolazione, il cast, compreso quello alternativo, era di sicura affidabilità, l’orchestra e il coro del San Carlo sono di provato valore. Invece, ne è venuta fuori una Carmen non memorabile, come si diceva, soprattutto rispetto alle aspettative della vigilia.
Il regista ha voluto attenuare la forza e la sanguigna vitalità della storia, che in genere nelle altre produzioni vengono amplificate, lavorando principalmente con i colori (i costumi erano di Giovanna Buzzi), le luci e le coreografie e denunciando così le sue origini di artista circense e di direttore del Cirque du Soleil.
Ecco quindi la scenografia leggera di Hugo Gargiulo, che presentava telai in stile moresco, con le ormai famose dodicimila lampadine che richiamavano le luminarie delle ferias spagnole (e del nostro Sud), e, in alternativa, una sfera sospesa composta di centinaia di piccole luci, che nelle intenzioni del regista dovevano creare rarefatte atmosfere di sogno. Purtroppo tutto questo si scontrava con il carattere drammatico dei personaggi e con l’ardente, tragica sensualità dell’opera.
L’idea registica certamente più stravagante erano i tubi al neon retti da alcuni mimi (tipica trovata da Cirque du Soleil) che incongruamente si aggiravano intorno a Carmen, e che verosimilmente rappresentavano le passioni che lei alimenta e di cui è essa stessa vittima; di fatto, però, questi artifizi davano molto fastidio, tanto da essere disapprovati rumorosamente dal pubblico alla fine della prima.
La conduzione di Zubin Mehta, come quella di Jacques Delacote, è stata sicuramente attenta e non invasiva. Entrambi i maestri si sono concentrati sul lirismo del dramma senza appesantire con troppo colore la tessitura musicale, sia nei momenti principali che nei passaggi intermedi: il preludio e gli entracte sono stati eseguiti in modo ammirevole, con un’orchestra del San Carlo in cui tutte le sezioni hanno dato il meglio. Delacote è solamente apparso più stringente nei tempi e più risoluto nelle chiuse. I cori, in particolare quello femminile e quello dei bambini, sono stati tra i migliori momenti della rappresentazione, grazie ai rispettivi direttori, Marco Faella e Stefania Rinaldi.
Delle due primedonne che si sono alternate nel ruolo principale, il mezzosoprano spagnolo Maria José Montiel, ha offerto una prestazione senz’altro meno soddisfacente di quella della francese Clémentine Margaine. La Montiel ha una voce troppo leggera per la parte, e nel registro alto ha lasciato perplessi, mentre la Margaine è stata una Carmen vocalmente più calda e piena in tutti i registri, e a questo si abbinava bene la ferina sensualità mostrata in scena.
Il Don José di Brian Jagde è stato abbastanza nella norma, duttile nel registro alto nei momenti più lirici, per esempio nell’aria «La fleur que tu m’avais jetée». Il tenore, che all’inizio sembrava un po’ fuori ruolo, poi è migliorato a partire dal secondo atto.
Il suo “alter ego” del secondo cast, il tenore spagnolo Andeka Gorrotxategui, è stato però più interessante per resa vocale e presenza scenica. La sua voce presentava un fraseggio elegante e una linea di canto chiara. Maggiore anche l’intensità drammatica ed emotiva mostrata nella “Romanza del fiore”.
Quanto a Escamillo, mentre il lituano Kostas Smoriginas non ha nemmeno provato a disegnare un torero vocalmente sofisticato, dandone invece un’interpretazione spavalda, il baritono spagnolo Ruben Amoretti è apparso più attento al fraseggio e ha presentato un timbro più scuro (da basso-baritono) nel registro, oltre che una maggiore facilità di emissione nell’acuto.
Eleonora Buratto è stata certamente la migliore: ha disegnato un ritratto appassionato di Micaela, mostrando come il ruolo deve essere cantato, con eleganza e con stile appassionato. Era completamente a suo agio nella parte, presentando un registro completo e una notevole capacità di controllare il volume e di emettere delicati pianissimi. La sua presenza scenica e la voce da grande soprano lirico le hanno guadagnato un’ovazione alla fine.
Si è fatta apprezzare anche Jessica Nuccio, la Micaela del cast alternativo, che ha fatto di tutto per non far rimpiangere la splendida prova della Buratto: il suo soprano lirico ha un bel timbro, e le delicatezze del fraseggio, la quantità della voce e la qualità della emissione ne fanno già molto più che una semplice promessa del panorama lirico italiano.
Sandra Pastrana e Giuseppina Bridelli (Annunziata Vestri nel cast alternativo) si sono distinte rispettivamente come Frasquita e Mercedes, collaborando efficacemente con Carmen, in particolare nella scena della lettura delle carte, in cui i loro destini si annunciano molto più fortunati di quello della protagonista.
I ruoli minori sono stati tutti ben cantati, a cominciare da Fabio Previati, ormai un veterano nel ruolo di Le Dancario, Carlo Bosi (Le Remendado) e Roberto Accurso (Moralès). Molto brave anche le ballerine, soprattutto nella scena della Plaza de Toros.
Lorenzo Fiorito
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