Das Rheingold
Prologo della sagra scenica Der Ring des Nibelungen, in quattro scene
Musica di Richard Wagner
Nuovo allestimento del Teatro Massimo
Per prima cosa è doveroso tributare un grande plauso al Teatro Massimo di Palermo che è la sola, con La Scala di Milano, fra le fondazioni liriche italiane a produrre il ciclo completo della tetralogia wagneriana nell’anno del bicentenario della nascita del grande maestro tedesco.
L’idea di affidare la guida dell’orchestra al giovane finlandese Pietari Inkinen, alla sua prima direzione completa del ciclo nibelungico, si è dimostrata azzeccata. Inkinen ha diretto con grande capacità l’orchestra palermitana non eccedendo mai e riuscendo a evidenziare con precisione i leitmotiv della partitura wagneriana. Condotti con maestria gli interludi e lo splendido finale con l’evocazione dell’arcobaleno. Musicalmente efficacissima nel finale la scelta di collocare le Ondine in fondo al teatro, all’opposto del palcoscenico piuttosto che nella buca dell’orchestra
Il cast è stato all’altezza della complessità dell’opera.
La bella voce dell’esperto basso wagneriano Franz Hawlata nel ruolo di Wotan, già dalla prima battuta “Der Wonne seligen Saal…” “La sacra sala della letizia…” rende tutta la solennità che la parte comporta e, nello stesso tempo, coglie ed esprime tutte le sfumature e contraddizioni del carattere del protagonista della Tetralogia. Bellissimo “Abendlich strahlt der Sonne Auge” “Al suo tramonto raggia l’occhio del sole”: momento nel quale il re degli dei concepisce l’idea della spada.
Al suo fianco Anna Maria Chiuri, una delle poche interpreti italiane ad avere il coraggio di cimentarsi con il repertorio tedesco. La Chiuri ha reso benissimo sia vocalmente che scenicamente il personaggio di Frika nonostante l’imbarazzante e inadatto costume leopardato.
Sergei Leiferkus, ha dato vita ad un Alberich veramente oscuro: bellissima voce, perfetta per rendere pienamente il carattere del personaggio.
Di livello anche il Loge di Will Hartmann e di assoluta qualità la prestazione di tutti i coprotagonisti.
Straordinario cast che purtroppo ha agito nel contesto di una regia, a dir poco, ingombrante. Graham Vick ha dato vita ad una messa in scena che, se nelle intenzioni voleva essere trasgressiva e dissacrante, a conti fatti si è dimostrata quanto di più banale si potesse immaginare.
Già l’idea di riempire la scena del Rheingold di presenze umane ormai è una cosa comune, basti pensare agli acrobati della Fura del Baus (Firenze e Valencia) o ai ballerini usati da Guy Cassiers (Milano e Berlino).
Fin dall’inizio è un susseguirsi di “trovate” al limite del ridicolo o del volgare e di soluzioni che utilizzano i meravigliosi temi musicali di Wagner come pretesto per inutili pantomime o immagini fastidiosamente didascaliche. Soluzioni inutili che hanno come unico effetto l’annientamento di quella solennità che è l’essenza stessa del Ring.
Lo spettatore entrando trova il sipario aperto ed il palco vuoto. Questo a poco a poco si popola di figure che portano delle sedie di plexiglass, prendono posizione e producono rumori di sottofondo che rendono impossibile percepire le famosissime e bellissime prime battute della partitura.
Aggirandosi fra le citate sedie plexiglass che rappresentano miseramente il Reno, le Ondine appaiono come tre “ninfette” provocanti, Alberich come un vecchio e disgustoso maniaco in impermeabile circuito da deridenti e discutibili azioni seduttive tanto spinte al punto da produrre in scena l’annusare di intimissimi indumenti. Le figlie del Reno diventano così adolescenti stereotipate e distratte da chissà cosa tanto da vagare con lo sguardo nel vuoto mentre cantano all’oro che non splende nel profondo del fiume ma dalla parte opposta.
Anche durante l’interludio, gli ossessivi movimenti dei figuranti impediscono la concentrazione ad il godimento della splendida musica di Wagner. Ed ancora: il Walhalla è un desolante campo di girasoli, i giganti che hanno costruito la rocca degli dei sono qui due operai edili con tanto di tuta arancione, elmetto giallo e muletto. Non pago di tanta pochezza Vick trasforma Donner (visto che ha un martello) in un atletico giocatore di polo e Froh in uno “scemotto” che si gingilla con un peluche fra le mani. Sappiamo che Froh nella mitologia norrena era il dio che cavalcava il cinghiale d’oro e che portava l’abbondanza e quindi, ammesso e non concesso, avrebbe potuto tutt’al più aver a che fare con questo animale e non certo con un orsacchiotto. Ma probabilmente a Vick interessava presentarcelo come un bambino viziato e ha escogitato per questo la più ovvia delle scelte.
Ovviamente a far da paio con queste insipide caratterizzazioni c’è poi quella di Loge trasformato in un “bulletto” con tanto di tatuaggi.
Il Nibelheim è una sorta di sala borsa frequentata da nani-manager che accumulano, al computer, azioni per Alberich, ora non più vecchio maniaco feticista ma prepotente tycoon.
Ovvio il riferimento al potere finanziario. Ci chiediamo perché pur usando il computer al momento del riscatto i nani agenti di borsa trasportino mattoni d’oro? Da dove sono sbucati? Forse che tutti quei computer servissero solo per accumulare il bene rifugio?
Lo spettacolo prosegue con un vero fuoco di artificio di banalità: girasoli secchi per dirci dell’invecchiamento degli Dei; ancora giganti con muletto e Freia legata ad esso (purtroppo anche lei in tuta da operaio); Erda che imita Anita Ekberg nella Dolce vita.
Il regista Vick non si fa mancare nulla e visto che in Walkure si saprà che Wotan violerà Erda concependo Brunnilde e le altre Valkirie, qui anticipa il tutto simulando l’accoppiamento, con la dea oracolare che seduce il sommo dio.
L’apice del comico involontario, poi, corrisponde al momento fatale in cui si manifesta la maledizione dell’anello: Fafner uccide il fratello manomettendo il muletto col quale il povero va a schiantarsi contro il muro fra le risate generali del pubblico.
Ma il regista non è ancor pago di tutto ciò e quando Donner chiama la pioggia è un trionfo di ombrelli ed anche l’arcobaleno che Froh, sempre con l’orsetto in mano, evoca altro non è che un ennesimo ombrello coi sette colori dell’iride. Nel mentre tra il pubblico qualcuno esclama: “E’ in arrivo Mary Poppins”
Solo alla fine il regista ha avuto pietà degli spettatori e per fortuna l’esplosione del tema della spada di Wotan non ha visto i soliti figuranti sollevare, magari, gli spadini di Zorro.
La realtà è che ormai si ha paura a confrontarsi veramente col Mito, sia quello antico che quello rivisitato da un grande come Wagner. Invece di capire quanto noi contemporanei siamo distanti da esso e quanto siamo invece ancora dentro ad archetipi sempre più misteriosi si cerca, per comodità, di adattare il mito alla nostra più superficiale modernità.
È, ad esempio, inaccettabile l’affermazione del regista sulla necessità di utilizzare in scena masse per “rimandare” al coro della tragedia greca a cui Wagner si è ispirato per realizzare il Ring.
Se Wagner avesse voluto avere masse sulla scena avrebbe inserito un coro vero. Se non l’ha fatto è stato perché non desiderava masse e perché, come lui stesso disse: nel Ring la funzione del coro viene resa dalla musica stessa, musica che da sola basta a far capire tutto ciò che si muove sulla scena.
Non si può affermare, come afferma Vick, che, poiché Wagner avrebbe voluto una partecipazione attiva del pubblico, diventi necessaria una banale passerella che collega il palco con la platea. Passerella che permetterebbe, secondo Vick, agli interpreti di scrutare le espressioni del pubblico dal palco. Se Wagner avesse voluto questo l’avrebbe previsto e realizzato. Invece Wagner considerava la sua tetralogia come un rito che contiene l’inizio del mondo e la sua distruzione e proprio per celebrare al meglio questo rito fece progettare il teatro di Bayreuth nel modo che riteneva perfetto: ed in questo teatro la musica crea un totale spartiacque fra il pubblico e quello che avviene in scena.
Insomma credo che ogni regista possa realizzare la propria visione del Ring ma non debba, per giustificare le proprie scelte, interpretare le intenzioni di Wagner meglio di come Wagner le avrebbe interpretate.
Non sono personalmente contro letture e messe in scena originali e anticonvenzionali: ho amato e sono cresciuto ammirando il grande ritratto di famiglia creato da Chereau per il Ring e sono rimasto totalmente affascinato dalle messe in scena di Kupfer. Dietro quelle visioni c’era coerenza, idee solide, profonde e, soprattutto, un totale rispetto della musica.
Siamo qui, invece, lontanissimi dalle visioni di Chereau o di Ronconi (citate nel programma di sala) che ricercavano nei loro allestimenti di interrogarsi sul perché della necessità del tragico all’interno del mondo borghese ottocentesco. Siamo lontani anche dalla prospettiva apocalittica di Kupfer.
In assenza di un vero pensiero sulla musica di Wagner quelli di Vick sono a nostro parere stratagemmi per nascondere una reale e sconcertante mancanza di idee.
Per questo la lodevole scelta della Fondazione del teatro Massimo di Palermo avrebbe meritato un rispetto maggiore da parte del regista.
Il prossimo mese andrà in scena Walkure. Speriamo almeno che Brunnilde, mentre sarà intonato il grande motivo della Giustificazione, non porti con sé un diario da far firmare a Wotan al fine di spiegare perché ha protetto i Walsi.
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