Crítica de Macbeth de Verdi. Bolonia

Bologna, Teatro Comunale

Martedì 12 febbraio 2013
Melodramma in quattro atti, libretto di Francesco Maria Piave e Andrea Maffei, dall’omonima tragedia di William Shakespeare
Musica di Giuseppe Verdi

 

 

Il Teatro Comunale di Bologna festeggia il 250esimo anniversario della sua erezione e inaugura questa nuova stagione lirica del centenario all’insegna della sobrietà e delle polemiche sugli ultimi nefasti provvedimenti del Consiglio dei Ministri sulle Fondazioni lirico-sinfoniche.

Macbeth è uno dei vari titoli verdiani della prima decade di carriera del Maestro d’indubbio fascino e rileva un passaggio di maturazione sostanziale nella composizione. Il libretto è tratto dall’omonimo dramma di Shakespeare, dal quale molte scene furono soppresse per esigenze teatrali, ma l’ossatura è rispettata. Bologna mette in scena la versione parigina del 1865 sopprimendo però i balletti.

Bologna mette in scena un allestimento ambizioso, coprodotto con il Change Performing Arts di Milano in collaborazione con il Teatro Municipal di San Paolo del Brasile, realizzato dal regista Robert Wilson. Tuttavia le ambizioni dello spettacolo sono state frenate dagli elementi potenzialmente più interessanti della produzione: la regia di Wilson e la direzione di Roberto Abbado, entrambe a modo loro suggestive (più la seconda che la prima) ma entrambe singolarmente in contrasto tra loro, oltre che impermeabili a recepire suggerimenti e stimoli agli artisti sul palco.

Wilson opera nel mondo dello spettacolo con un linguaggio del tutto personale integrando suono, luce, spazio, azione e danza. La scena minimalista è caratterizzata da un gioco di luci di straordinaria efficacia su una base d’oscurità continua; i personaggi si muovono uniformemente con gesti ripetitivi e pose manierate. In primo piano troviamo i protagonisti mentre il coro, il popolo, le streghe, ecc., sono sempre nella penombra come agissero una sorta di evoluzione naturale i cui soggetti primari si uniformano a tale inesorabilità. Diviene pertanto una tragedia notturna: continui sono i riferimenti al buio e alle tenebre come condizione esteriore e, soprattutto, interiore. Wilson ambienta l’opera nel buio, un buio totale e nerissimo, assorbente, da cui non emerge niente e nessuno se non i protagonisti per il tempo strettamente indispensabile al canto, avvolti da fasci bianchissimi di luce in volto, luce riflessa e amplificata dai volti bianchi di cera come maschere del teatro giapponese. Un buio che è fin troppo evidente essere quell’abisso privato, fonte e propulsore del male.

Wilson non ha rinunciato, davanti ad una delle partiture più sanguigne e travolgenti di Verdi, al suo stile estremamente minimalista, dall’estremo rigore e asciuttezza nelle scene di cui è anche autore e nei bellissimi costumi di Jacques Reynaud, dalla eccessiva e alquanto noiosa rigida impassibilità dei personaggi e dalle vaghe ispirazioni al teatro giapponese. Questa estraneità al mondo verdiano non si è rivelata vincente nello spogliare il melodramma dall’enfasi di tradizione e nel portare lo spettatore in una dimensione carica di mistero e di eccessiva staticità. Wilson è capace di penetrare ottimamente nella dimensione psicologica dei personaggi (nonostante lui neghi di farlo), in alcuni casi fin troppo eccessiva come nel caso di Lady, e di conferire all’uso delle luci di Aj Weissbard una dimensione metafisica e straniante. Unico difetto delle luci, la fascia di neon troppo forti rivolti per tutta l’opera verso la platea, eccessivamente fastidiosi.

La regia di Wilson è raffinata ed affascinante, anche se le si possono fare diverse annotazioni. Innanzitutto l’eccessiva staticità dei personaggi, l’inamovibilità del coro rendono il tutto alquanto noioso a lungo andare, non bastano le poche mosse delle mani tipiche del teatro kabuki giapponese a dinamizzare la vicenda. Tutto è troppo estremamente intimistico. Ridicole le piroette di Macduff al banchetto del secondo atto. Altri episodi sono talmente minimizzati che scompaiono i riferimenti del libretto. Sembra che l’unica preoccupazione di Wilson sia di utilizzare i cantanti come manichini per creare degli statici quadretti, dei tableau vivant.

Un’idea registica del genere, già di suo, poco si presta ad un’opera come Macbeth ma ancora meno convince se gli attori e, nel caso specifico i cantanti, non riescono a seguire questa visione: compito del regista è capire come valorizzare il cantanti a disposizione per valorizzare lo spettacolo; ma questo a Bologna non è avvenuto perché la sola Lady di Jennifer Larmore ha dimostrato di aver interiorizzato la particolare danza scenica ideata da Wilson, traducendola in una presenza visiva di grande spicco e espressività. Tutti gli altri si sono rivelati a disagio, incapaci di tradurre in emozione il particolarissimo gesto del regista, col risultato che lo spettacolo non ha del tutto convinto.

Alcune idee a dire il vero sono state splendide (come l’assassino che, lentissimamente, si avvicina a Banco mentre questi canta la sua aria, creando una forte tensione), alcuni momenti molto evocativi, come la scena delle apparizioni, in un  turbine di nebbia con le streghe a formare un’indefinita ma minacciosa massa sul lato destro del palco, altri, infine, suggestivi ma incongrui, come il cielo stellato che accompagna la scena del sonnambulismo; lo spettacolo, tuttavia, è come abbiamo più volte ricordato statico.

Certamente Macbeth è anche altro, senza contare che lasciare la scena completamente aperta e vuota è, dal punto di vista della dispersione del suono, molto rischioso anche in un teatro piccolo e dall’acustica perfetta come Bologna.

Roberto Abbado, direttore e concertatore, dirige in modo ottimale l’orchestra del Comunale, in forma splendida, cesella tutta la partitura con manierato piglio illustrativo, tempi perfettamente sincronizzati, scansione sonora di forte impatto e drammaturgicamente scolpita. Due scelte infelici ci colpiscono, forse non ideate dal direttore ma da lui tollerate. La prima all’ingresso di Lady, la lettura della lettera avviene fuori scena, per mezzo di una voce di attrice amplificata: ciò non solo ruba alla cantante un tassello della performance e un singolare pezzo di bravura declamatoria, ma anche toglie vigore al brusco passaggio dal parlato al recitativo, efficace solo se eseguito da un’unica interprete. La seconda si ha nella soppressione del Ballo nell’atto III, pagina strumentale tra le più originali e ispirate di Verdi. Peccato che Abbado in alcuni punti abbia seguito la regia, risultando cioè pesante e noiosa.

Il coro del Comunale preparato dal maestro Andrea Faidutti si è dimostrato altamente professionale facendosi notare per passione, drammaticità e libertà di respiro, nonostante le infelici scelte registiche.

Cast molto eterogeneo ma con complessivo risultato buono.

Dario Solari è un giovane Macbeth dalla voce morbida, salda e sonora, ampia e ben emessa; ha presentato stanchezza vocale verso la fine dell’opera,  povertà nel fraseggio e nei colori, raramente esce da una monotona sterile interpretazione; la qualità c’è, deve solo essere messa in mostra.

Jennifer Larmore è Lady Macbeth. La Larmore è nota per essere una grande belcantista rossiniana. Già al secondo debutto in questo suo inusuale e non propriamente adatto ruolo. La tecnica è innegabilmente ottima, ma la voce è troppo poco sonora per questo tipo di repertorio. In questo nuovo cimento, la voce da mezzosoprano della Larmore conserva timbro inconfondibile, compresi i tratti aspri che mai l’hanno premiata e che tuttavia ben si addicono alla Lady; la pessima dizione è però controbilanciata da un accento teatrale pieno d’incisività e l’acume dell’interprete è fuori discussione.

Carlo Cigni (che ha sostituito l’indisposto Zanellato), si è rivelato un Banco di notevole presenza vocale e intensità espressiva.

Roberto De Biasio è stato un Macduff elegante, un po’ impacciato per le infelici scelte registiche, ha dato ottima prova di sé guadagnando giustamente grandi applausi soprattutto per l’aria Ah, la paterna mano.

Buone le parti secondarie, tra le quali si sono distinti: Gabriele Mangione (Malcom), Marianna Vinci (Dama di Lady), Alessandro Svab (Medico), Michele Castagnaro (Prima apparizione), Sandro Pucci (Sicario)e Luca Visani (Araldo), Valentina Puci (Seconda apparizione), Annalisa Taffettani (Terza apparizione).

In un Teatro Comunale completamente esaurito un pubblico alterno durante lo spettacolo, con ovazioni alternate ad inspiegabili silenzi (come quello, glaciale, dopo l’eccellente Patria oppressa) ma prodigo di applausi a fine recita per tutti gli artefici dello spettacolo e qualche dissenso per la regia.

 

Macbeth                               DARIO SOLARI
Banco                                   CARLO CIGNI
Lady Macbeth                     JENNIFER LARMORE
Dama                                                MARIANNA VINCI
Macduff                                ROBERTO DE BIASIO
Malcom                                GABRIELE MANGIONE
Il Medico                             ALESSANDRO SVAB
Un domestico di Macbeth            MICHELE CASTAGNARO
Il sicario                              SANDRO PUCCI
L’araldo                               LUCA VISANI
Prima apparizione                        MICHELE CASTAGNARO
Seconda apparizione        VALENTINA PUCCI
Terza apparizione              ANNALISA TAFFETANI
Duncano                              GIANLUCA D’AGOSTINO
Fleanzio                               VALENTINA VANDELLI
Orchestra e Coro del Teatro Comunale di Bologna
Direttore Roberto Abbado
Maestro del Coro Andrea Faidutti
Preparatore Voci Bianche Alhambra Superchi
Regia, scene, coreografia, ideazione luci Robert Wilson
Costumi Jacques Reynaud
Light designer Aj Weissbard
Nuovo allestimento Teatro Comunale di Bologna
in coproduzione con Change Performing Arts

 

 

Mirko Bertolini