Un Rigoletto un po’ incolore e monocorde è stato quello presentato al Teatro Carlo Felice di Genova nel corso della corrente Stagione lirica e non tanto per la chiave registica, sapientemente impostata da Rolando Panerai, quanto per il cast che, a parte un’unica eccezione, è risultato carente sotto diversi aspetti.
La potente centralità della parola scenica scolpisce, in questo poderoso lavoro verdiano, i caratteri dei personaggi che sembrano ruotare intorno ad un fato a loro superiore che ne determina gesti, azioni e destini. La maledizione diventa dunque un potente volano che scatena reazioni avventate quanto terribili.
In questo senso la regia di Rolando Panerai risultava centrale e drammaticamente assai ben costruita intorno ad un personaggio debole costretto anche materialmente (Preludio Atto I) ad indossare una gabbana a lui tanto estranea quanto odiata.
Nell’ambito di una tradizione amata, ma non venerata, Panerai delineava così una regia impostata intorno alla drammaturgia creata da Francesco Maria Piave, evidenziandone particolari non così abusati e di contro teatralmente significativi. Ne risultava uno spettacolo elegante (i costumi portavano la firma di Regina Shrecker) e raffinato che, nella sua semplicità, risultava potentemente drammatico andando ad evidenziare le peculiarità di ogni personaggio. Indubbiamente da segnalare quanto la sensibilità di un grande artista quale Rolando Panerai sia riuscita a penetrare profondamente nelle pieghe di una drammaturgia arcinota evidenziandone, senza spirito museale bensì prettamente teatrale, dinamiche e significanti.
Un’ossatura lineare e potente che per vivere necessitava però di interpretazioni forti e potenti.
In questa recita il ruolo del titolo era affidato al baritono Giovanni Meoni che, nell’ambito di una sobria compostezza interpretativa, evidenziava una vocalità interessante per estensione e timbrica ma sostanzialmente priva di quell’attenzione ad accento e fraseggio che, in questo ruolo, deve essere assolutamente dominante. La vocalità in molti ruoli verdiani risulta infatti quasi ancella della parola, quella parola scenica la cui centralità il Maestro inseguirà per tutta la sua lunga vita, rendendola sempre più potente, scarna e teatralmente significativa.
Il soprano Sophie Gordeladze tratteggiava una Gilda vocalmente insufficiente evidenziando numerose acerbità che, specie nel registro acuto, ne rendevano l’interpretazione davvero discutibile.
Contraddistinto da una vocalità costantemente roboante e poco dominata risultava lo Sparafucile del basso Mihailo Šljivič e per analoghi aspetti ugualmente negativa la prova del mezzosoprano Kamelia Kader quale Maddalena.
Ottima la prova del tenore Celso Albelo, impegnato nel ruolo del Duca di Mantova. Una timbrica costantemente dominata da una tecnica sapiente permetteva all’artista infatti di cantare con morbidezza, donando al pubblico le puntature che richiedeva (cabaletta del II Atto) ed alla drammaturgia un’attenzione alla parola ed all’accento sempre costante e raffinata. Così il suo personaggio viveva attraverso un attento uso di sfumato e mezza voce, sapientemente alternati ad una vocalità sempre brillante e dal sapore antico che lo portava a dominare l’ingrato e difficile ruolo.
Completavano il cast: Alla Gorobchenko (Giovanna), Stefano Rinaldi Miliani (Monterone), Claudio Ottino (Marullo), Aldo Orsolini (Borsa), Giuseppe De Luca (Conte di Ceprano), Simona Pasino (Contessa di Ceprano), Loris Purpura (Usciere) e Annarita Cecchini (Paggio).
Praticamente inesistente la direzione del M° Dorian Wilson che dava l’impressione di dirigere per se stesso con tutte le logiche conseguenze sulla compattezza musicale e drammatica dello spettacolo.
A tratti convincente il Coro del Teatro diretto dal M° Franco Sebastiani.
Un Teatro Carlo Felice gremito da un pubblico entusiasta testimoniava, ancora una volta, quanto questo titolo resti, sempre e comunque, uno dei più amati della grande tradizione.
Silvia Campana