Guglielmo Tell. Rossini. Pesaro

 

Una scena del

MA QUESTO È UN GUGLIELMO TELL MEMORABILE

La versione dell’opera andata in scena a Pesaro ha rappresentato uno dei momenti più alti nella storia del festival rossiniano. Un trionfo per Juan Diego Florez e una dimostrazione della capacità di direttore per Michele Mariotti.

 
Un luogo comune non del tutto campato per aria vuole che il Guglielmo Tell si faccia solo se c’è il tenore per l’asperrima parte di Arnold. Per questa attesissima edizione del monumentale capolavoro rossiniano, il Rossini Opera Festival di Pesaro ha scritturato un fuoriclasse quale Juan Diego Florez: sulla breccia ormai dal 1996, ha affrontato l’arduo cimento con fermezza e determinazione, mutuate da una solida esperienza professionale, uscendone vincitore con gli onori di un meritato trionfo (ma al tempo stesso con la radicata convinzione di non poter procedere oltre in questa direzione).
 
Molto bene anche l’altro tenore, Celso Albelo, alle prese con il breve ma impervio canto del Pescatore. Questo per molte ragioni splendido Guglielmo Tell in lingua originale ha giustamente esaltato anche Michele Mariotti, che ha offerto una decisiva dimostrazione delle sue qualità direttoriali, trovando per le oltre quattro ore di spettacolo il difficile punto d’incontro fra i momenti d’intensa drammaticità – sottolineati dagl’interventi dello splendido coro del Comunale di Bolgona, istruito con vigorosa passione da Andrea Faidutti – e le lunghe fasi di soffuso lirismo dove emerge la necessaria dimensione panica.
 
Essa è stata del tutto ignorata dalla regia di Graham Vick, che ha privilegiato invece una chiave di lettura ideologica (la presa di coscienza del popolo oppresso e il sogno di un’utopia socialista) non priva di suggestioni cinematografiche (dall’Albero degli zoccoli di Olmi a Novecento di Bertolucci), parzialmente accettabile soprattutto nel tumultuoso terzo atto ma che alla fine ha lasciato perplesso parte del pubblico. C’è da dire però che, a differenza di altre occasioni, la fruizione della musica non ha subito danni irreparabili. Il resto del cast è stato complessivamente all’altezza della situazione. Il protagonista Nicola Alaimo non potrà che crescere in autorevolezza, buono il Furst di Simon Orfila e convincente l’odioso Gessler dipinto da Luca Tittoto. Sul versante femminile, accanto a Veronica Simeoni (bravissima Edwige) e Amanda Forsythe (una piacevole sopresa il suo eccellente Jemmy), avrebbe dovuto emergere la Matilde impersonata da Marina Rebeka: in realtà la cantante lettone, dotata di voce forte e resistente, si è fatta apprezzare per ciò che ha lasciato intravedere più che per quanto ha messo in evidenza, al di là di una spicevole tendenza al grido che neppure Mariotti è riuscito a frenare.

 

È stata nel complesso una serata fra le più esaltanti vissute dal ROF dal giorno della sua nascita, che ha compensato il mediocrissimo esito lamentato dallo spettacolo inaugurale firmato da Davide Livermore. La sua è stata un’Italiana in Algeri a ruota libera e schizofrenica, con deliberati omaggi al passato, che ha trasformato la scintillante fantasia rossiniana in colonna sonora (per di più male diretta da José Encinar) di un’intollerabile farsa. A farne le spese è stato soprattutto Mustafà, grandioso personaggio belcantistico che Alex Esposito ha purtroppo trasformato in insopportabile guitto. 
 
Non troppo azzeccata nemmeno la protagonista Anna Goryachova, preoccupata soprattutto di far valere la sua innegabile avvenenza a spese della definizione del personaggio, alquanto mancata anche vocalmente per evidenti carenze timbriche. Si sono distinti, nonostante tutto, il Taddeo di Mario Cassi e il Lindoro del taiwanese Yije Shi e la promettente Elvira di Mariangela Sicilia. La conclusiva Occasione fa il ladro – riproposta nello storico allestimento firmato dal compianto Jean-Pierre Ponnelle, e qui «rinfrescato» da Sonia Frisell – ha infine messo in luce la collaudata comicità di Paolo Bordogna e Roberto de Candia, nonché il rigore e la professionalistà della direttrice cinese Yi-Chen Lin.