Un quadro storico impostato in un America che va dal 1867 al 1887, nel quale veniva emanato il XIII emendamento, con il quale la schiavitù veniva abolita, unita al suo simbolo per eccellenza, quella celeberrima Statua della Libertà inaugurata proprio in quegli anni (e che troneggerà nel quadro finale del ballo) connesso ad un tracciato emozionale che vive di una ragnatela di passioni ed emozioni in cui il razzismo, ancora dominante, si scontra con le scelte dei singoli caratteri che, oltre ai propri conflitti personali, devono convivere con uno scontro politico costante e durissimo, questo è l’ardito taglio scelto dal giovane regista Gianmaria Aliverta per “Un ballo in maschera “ nuova produzione del teatro La Fenice di Venezia per lo spettacolo inaugurale della stagione 2017/2018.
Una visione interessante, esaminata nel suo complesso, anche se ricca di quadri non sempre perfettamente riusciti. Se può risultare interessante infatti presentare Amelia come una donna di colore con tutte le drammatiche conseguenze del caso ed impostare alcuni personaggi (il primo giudice) quali esponenti di una reazione ottusa e criminale (Ku-Klux-Clan) così come ridisegnare Oscar quale un ragazzo venuto dai bassifondi ma protetto dal potente Riccardo, risulta un po’ forzata la scena del ‘ballo’ inchiodata in un quadro fisso che toglie coerenza drammatica e compattezza teatrale alla scena. Forse le coordinate teatrali erano state già chiaramente fissate (l’aria di Riccardo ha come sipario la bandiera americana) e sottolinearle ulteriormente con la presenza della Statua della Libertà e del suo ballo inaugurale rischiano di rendere statica come una litografia un quadro d’assieme diversamente mosso e variegato.
Sul palco un cast eterogeneo per qualità e resa teatrale.
Francesco Meli si conferma uno dei ‘Riccardi’ più completi che la scena internazionale oggi possa presentare. Il ruolo esige, oltre ogni cosa, un’accurata musicalità unita ad un fraseggio morbido e sfumato che possa ben cesellare le mille sfumature con le quali Verdi ha costruito il personaggio ed il timbro dell’artista è lucente e proiettato e, pur non sempre rotondo nel registro acuto, costantemente dominato in tutta la tessitura. Ne emerge un giovane ‘presidente’ idealista e timoroso quanto passionale ed istintivo che ben si amalgama con lo spirito dal quale la partitura è pervasa .
Diversamente intesa l’Amelia di Kristin Lewis che, pur in possesso di un timbro molto interessante e morbido, non riesce a dominarlo con costanza alternando momenti buoni ad altri in cui emissione ed intonazione non sempre sono controllati a dovere. Inoltre la pronuncia non ottimale non aiuta l’artista ad entrare nelle pieghe del personaggio con la dovuta misura interpretativa.
Renato non è ruolo semplice e, specie in questa lettura registica, conosce molte sfumature che dovrebbero essere necessariamente rese attraverso una cura molto attenta alla parola ed all’accento e Vladimir Stoyanov, pur interpretandolo con professionalità grazie ad uno strumento sostanzialmente corretto, sembra non cercare oltre e, forse, non può bastare.
Ottima la prova di Serena Gamberoni quale Oscar nel quale teatralità, vocalità ed accento giocano una partita di grande equilibrio interpretativo così come l’Ulrica di Silvia Beltrami, drammaticamente intensa .
Di buon livello il resto del cast: William Corró (Silvano), Simon Lim (Samuel), Mattia Denti ( Tom), Emanuele Giannino (un giudice) e Dionigi D’Ostuni (servo d’Amelia).
Alla guida dell’Orchestra del Teatro la Fenice il M. Myung – Whun Chung tesse una lettura della partitura quasi romanzata, impostando un gioco di cromie e tempi sempre raffinato e più che aderente al dramma. Così i personaggi sono come accompagnati all’interno di esso con un risultato omogeneo di estrema completezza e compattezza drammatica .
Una sala gremitissima ed un pubblico entusiasta ha tributato applausi e chiamate a tutti gli interpreti ed al Direttore.
Silvia Campana