Intervista al Dott. Franco Fussi

Franco Fussi, foniatra

Per alcune puntate Liricamente vi accompagna con le risposte periodiche di uno dei più grandi esperti italiani della foniatria con particolare riferimento al canto lirico: il dott. Franco Fussi. Professionista simpatico e disponibile, risponderà alle domande più frequenti del nostro giornalista Antonio Guida inerenti sia al ramo musicologo sia tecnico dell’arte del canto, senza tralasciare ovviamente consigli utilissimi per le ugole «acerbe».
Buona lettura e… fidatevi!

1) DOTT. FUSSI, SECONDO LEI COM’È CAMBIATA LA VOCALITÀ NEL CANTO LIRICO NEL CORSO DEL ‘900? Qualche tempo fa, a teatro, un anziano spettatore commentava gli scroscianti applausi alla fine del primo atto con un paziente e rassegnato: «Esagerati! Non ci sono più le voci di una volta, guarda che fatica che fanno…«. Lui ricordava i Martinelli, le Stignani, i cantanti «con la canna«, non gli urlatori di oggi, «che se hanno voce piccola non si sentono, e se hanno voce grande sono sgarbati«.

In due parole aveva fatto la differenza tra due filosofie dell’emissione vocale, coincidenti anche a due epoche del canto e a due modi di far didattica: la ricerca della «punta» e della «maschera», cioè una impostazione che ricerchi soprattutto il cesello dell’articolazione vocale ed il senso di direzionalità e di posizione del suono, da un lato, e la ricerca del «corpo» del suono, il senso del volume e dello spessore dell’emissione, dall’altro. Che, in termini fisico-acustici, significa anche, nel primo caso, l’esaltazione dell’intensità della nota fondamentale, per sovrapposizione su di essa del primo rinforzo formantico e l’innalzamento in frequenza dei picchi formantici (quindi voce più brillante), contro, nel secondo caso, l’assemblaggio di formanti superiori in un prevalente rinforzo armonico sui 3000 Hz detto «formante del cantante» e l’abbassamento in frequenza dei picchi formantici (quindi timbro più scuro).

Questa è la differenza che ancora oggi si sente spesso tra le voci, come se il XX secolo avesse accentuato due modi diversi e di per sé legittimi di far voce in teatro.

Da un punto di vista storico-vocale questa è anche la dicotomia che separa i repertori barocchi e belcantisti da quelli melodrammatici e veristi, così come sul versante pedagogico si differenziano scuole di canto che prediligono una impostazione basata sulla ricerca delle posizioni nei risuonatori da quelle che cercano subito il rinforzo del volume.

Ma certamente esiste anche un possibile equilibrio tra i due versanti, una possibile loro integrazione. Nessuno altrimenti avrebbe mai cantato bene Norma, Rigoletto e Traviata. Penso sempre che in base alla categoria vocale di appartenenza, alle caratteristiche anatomofisiologiche del soggetto, al repertorio e all’ambito tonale che sta cantando, possano esserci delle prevalenze d’azione di una o dell’altra delle facce della medaglia, ma che sempre entrambe debbano essere compresenti e in relativo equilibrio tra loro.

Certamente una voce piccola rimarrà tale, ma l’applicazione in essa di tecniche di affondo, almeno integrative e riservabili alla prima ottava, a costruire quello che potrebbe essere didatticamente definito un vero suono «misto», potrebbe essere una soluzione per rendere più completa e «teatrabile» una voce, come d’altro canto un maggior lavoro sulle posizioni, per imparare a cantar piano senza spoggiare, sia un utile allenamento anche per grandi gole che hanno vita facile nell’esaltare il volume dell’emissione con l’affondo.

Ed allora forse si formeranno ancora i Martinelli e le Stignani, i tenori dalla voce eroica e nobile, che eseguano bene sia l’aria sia la cabaletta, che sappiano fraseggiare, variare le dinamiche senza spoggiare, legare e farsi sentire, i soprani di corpo drammatico che sappiano eseguire una messa di voce senza schiacciare i suoni e senza mostrare separazioni tra i registri. In una parola, come diceva l’anziano spettatore, che non siano sgarbati.

Non vedo antitesi precostituita tra i due filoni didattici, dipende solo a quale organo (fisiologicamente parlando) si applicano, in che ambito tonale, per quale categoria vocale, un insieme di ragioni per le quali non è produttivo ergere palizzate o rivendicazioni di metodo di canto.

Il canto è uno.

E cento le possibilità di bilanciamento dell’emissione.
Il canto è qualcosa che facciamo, non qualcosa che abbiamo, e i risultati migliori si hanno quando esiste una applicazione combinata delle componenti che ci danno il senso della direzione e del volume, bilanciate poi a piacimento e, soprattutto, in base alle necessità del repertorio e della tipologia vocale di appartenenza.

Gli errori più grossi si commettono quando uno dei due filoni viene assolutizzato ed esasperato su tutta l’estensione, configurando da un lato voci querule che nasalizzano o «aprono» troppo i suoni e «spoggiano», e, dall’altro, voci che si ingolfano, appesantiscono l’emissione e il vibrato, fino al ballamento, calano e «sbracano».

Così come le tecniche di proiezione in maschera possono essere equivocate «nel naso«, con costante posizione a sorriso o elevazione del labbro superiore e facilitate da vocalizzi sulle /i/, quelle di affondo possono essere pensate come esclusivo allungamento del tubo di risonanza, quindi abbassamento estremo del laringe nel collo e vocalizzi sulle /u/, abbinate a una respirazione basata solo sull’appoggio diaframmatico senza sostegno addominale (cioè costante spinta in basso e in fuori dell’addome con conseguente collassamento sternale).

Ad ogni buon conto, il mutamento di gusto nell’ascolto del canto lirico, dall’epoca della «flessibilità della gola», del virtuosismo settecentesco e del belcantismo, all’epoca del tenore di forza, dell’ipertrofia romantica e verista del suono che riempie il teatro, coincide con lo sfruttamento sempre maggiore delle sonorità dette «di petto» e sembrerebbe perciò accreditare le tecniche di affondo, il mezzo più idoneo a irrobustire il registro grave della voce e i suoni della prima ottava, fisiologicamente meno udibili con altre tecniche.

L’estensione delle tecniche di affondo anche a repertori «belcantisti» viene infatti giustificato dal mutamento storico-estetico della vocalità come tecnica, e quindi dal cambiamento dei gusti vocali del pubblico, per il subentrare delle caratteristiche del repertorio verista, delle necessità acustiche delle strutture teatrali, dell’innalzamento del diapason, della moltiplicazione degli strumenti in orchestra, delle necessità delle case discografiche, della sensibilità uditiva dell’ascoltatore, alterata dall’odierno grado d’inquinamento acustico ambientale e dalle abitudini stesse di ascolto (amplificatori, microfonia, ecc.).

In realtà negli ultimi decenni del XX secolo si è assistito ad un progressivo abbandono di tali ipertrofie vocali per perseguire una vocalità più attenta alle dinamiche vocali e alla raffinatezza esecutiva, con un recupero dell’attenzione didattica al belcanto. Ed è proprio nella scrittura vocale di personaggi di opere di un’età a cavallo tra reminescenze virtuosistiche e sguardo al futuro che riposa il culmine dell’equilibrio tecnico tra punta e affondo, riscontrabile in vocalità quali ad esempio Bjoerling e Pavarotti. E questo suo essere a cavallo tra due possibili modi tecnici, o meglio rappresentarne il connubio, rende possibile la frequentazione di un personaggio, in maniera ugualmente credibile, da parte di vocalità tecnicamente sbilanciate verso l’uno o l’altro degli impianti, rendendo plausibili ad esempio due «modi vocali» tra loro distanti come Giuseppe Sabbatini e Josè Cura nell’interpretare il personaggio di Alfredo in Traviata; come furono distanti Tagliavini e Del Monaco nel cantare la parte del Duca di Mantova nel Rigoletto.

Il cambiamento oggi è dunque, come sempre, un cambiamento di gusto nella fruizione del gesto vocale; il nostro ascolto oggi, forse condizionato dalla multiformità delle esperienze dei generi musicali, accetta esteticamente, in maniera forse meno rigida di un tempo, nuove sonorità anche in ambito colto (cioè per quanto riguarda la musica classica occidentale) che finiscono con l’avere una loro legittimità accanto a modalità più strettamente codificate e accreditate.

 

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