Venezia. Teatro La Fenice, 28 settembre 2014.
Singolare carriera quella di Gregory Kunde, tenore americano che di fatto è già entrato di diritto nel libro dei Guinnes per essere l’unico in tempi moderni ad aver cantato -e continuare a cantare!- i due Otello, quello di Rossini, pensato per un tenore contraltino e quello di Verdi, scritto per un tenore drammatico e spinto. L’impresa, certo incredibile, oltre che ardua, è stata compiuta nell’Ottocento da Francesco Tamagno, ma, oltre a non esserci un documento sonoro, non li cantò certo contemporaneamente ed è pure ipotizzabile un’aderenza sui generis con lo stile rossiniano in un interprete che, sepure grandioso, calcò la scena agli albori del Verismo.
Stile che non si discute, evidentemente, nel caso del tenore del New Jersey che ha ormai varcato la soglia dei sessanta anni e la cui tenuta vocale, maturità d’interprete e specificità, oltre che rispetto totale del dettato musicale e drammatico, lo pongono oggi come oggi al primo posto tra tutti i possibili interpreti del Moro di Venezia.
Non si tratta, come è capitato e capita a suoi colleghi e colleghe, anche di distinta corda, di una improvvisa follia, di smania di grandezza o, piuttosto, di un ripiego quando la voce non risponde più in acuto e si compensa il danno gonfiando artificiosamente le note centrali e basse. O peggio, quando non potendo più cantare da tenore ci si improvvisa baritono, magari anche basso, senza avere più le note né del primo né, tantomeno, del secondo. Si tratta, nel caso di Kunde, di un percorso graduale, meditato, sostenuto da una tecnica ferrea e conseguente ad una evoluzione naturale della voce che, nel corso degli anni, ha acquistato un corpo, una ricchezza di armonici, una potenza che, in realtà, erano in nuce anche quando Kunde cantava Bellini e Donizetti, ruoli che per altro non ha mai abbandonato.
Chi firma ricorda una sua memorabile, e per certi versi premonitrice, esecuzione del Gennaro in Lucrezia Borgia a Las Palmas di Gran Canaria. Ma è stato il suo Arrigo ne I vespri siciliani, andati in scena al Teatro Regio di Torino per la commemorazione dei 150 anni dell’unità d’Italia nel 2011, ad imporlo all’attenzione del mondo lirico. A far capire a tutti come fosse maturata l’organizzazione vocale di questo straordinario artista. Il trionfo personale che ottenne con il successivo Otello di Verdi al Teatro La Fenice di Venezia, per molti una sfida più che una scommessa, diede poi la definitiva conferma.
Ed è ancora la città lagunare a proporre l’ennesimo debutto, ma si parla già di un’altra presa di ruolo con il Werther nel 2016. Affrontare Manrico non è un’impresa da tutti, e men che meno in età matura e cantando la parte in tono, raddoppiando e variando la temibile “pira”, coronandola con un Do di petto tenuto spavaldamente, impressionante per lucentezza e potenza. Evviva! Il pubblico, impazzito è scattato in un’ovazione ed ha pure tentato la Standing Ovation, frustrata dal fatto che l’opera, nella direzione di Daniele Rustioni e per la regia di Lorenzo Mariani, è stata eseguita senza soluzione di continuità a gruppi di due atti, con una sola pausa dopo il secondo atto e quindi si è passati direttamente dall’interno di Castellor alla scena della torre senza cambio di scena e senza la discesa del sipario.
Intendiamoci, pur nella ammirazione incondizionata verso il cantante, l’artista e l’uomo, che ha pure il dono della modestia e di un’intelligenza rara, non solo tra la famigerata categoria dei tenori, si deve ammettere che il timbro non è «bello», un po’ scarso di velluto, non sempre carezzevole. Del resto, di voci «brutte» che hanno fatto la storia del canto, senza possedere un suono angelicato, quante ne conosciamo? La Callas, la Olivero, la Kabaivanska tanto per fare tre esempi femminili e senza offendere tenori del presente e del passato. Ma proprio lì sta l’abilità, o meglio l’arte, la classe che si concentrano in una parola sola: carisma. Nel rendere il massimo con il fraseggio, con l’accento, con il rispetto della nota e della parola cantata. Kunde, inoltre, è tra i pochi anglosassoni a dominare perfettamente la nostra lingua, con una dizione ed articolazione perfette. E dunque, non sono solo i momenti “canonici”, quelli in cui ogni Manrico è atteso al varco, l’invettiva “Mal reggendo l’aspro assalto” o piuttosto il recitativo e l’aria “Ah si ben mio”, cantati ed interpretati con veemenza e sentimento, a renderlo immenso, statuario, unico, individuabile al di sopra di ogni possibile artifizio discografico, con una resa dal vivo elettrizzante, quanto certe frasi che assumono una forza espressiva inaspettata, con un colore drammatico -la famosa “tinta” che esigeva Verdi- che ti affascina e ti commuove. Per tutte, i versi con cui Manrico accoglie Leonora in carcere, prima incredulo e vinto dall’amore, quindi accecato dalla rabbia e dalla gelosia: “Pur figgi donna in me lo sguardo, da chi l’avesti ed a qual prezzo!”. Ecco l’accento di Otello! E un brivido percorre la schiena e lo sguardo si appanna per la commozione di una lacrima trattenuta a stento. Emozioni così non si vivono tutti i giorni. Grazie Gragory.
Ovviamente sono ineludibili i prossimi appuntamenti a Genova ed a Bilbao per i debutti in Tosca ed in Cavalleria rusticana e Pagliacci.
Il resto del cast gli ha tenuto testa con onore ed ottimi risultati: bella la prova di Carmen Giannattasio, che pur afflitta da bronchite e prevedibilmente accorciata un po’ nei fiati, ha delineato una Leonora trepidante, ma anche decisa e coraggiosa con voce di bella consistenza, bel colore, aiutata dalla figura e recitazione accattivante. Veronisca Simeoni, dal pari, è stata una splendida Azucena. Ha l’intelligenza di cantare con la sua voce, che è di mezzosoprano acuto (stupenda la puntatura al Do nel duetto col tenore, acuto tenuto con squillante precisione) senza forzarla mai e pure cercando, ad esempio nella scena del carcere, il colore cupo e l’accento straniato della moribonda. Sfrenata nella scena dell’accampamento sulle frasi “De’ rallentate barbari le acerbe mie ritorte” è stata giustamente festeggiatissima. Una relativa sorpresa il baritono Artur Rucinscki che ha dato vita ad un Conte di Luna nobile ed autoritario. Si tratta di una delle più belle e complete voci di baritono oggi su piazza. Se in altre occasioni il giovane interprete, appena 35enne, aveva dato l’impressione di voler colpire più per la potenza che per la qualità, forzando l’organo prezioso, in questa prova lo si è trovato assai migliorato come interprete. Ha cantato con morbidezza, mezze voci pregevoli, la difficile aria “Il balen del suo sorriso” e la successiva cabaletta. Ottimo il Ferrando di Roberto Tagliavini, un basso che ormai è una realtà in campo internazionale. Voce ben emessa; anche lui non cerca impossibili affondi, e ne risulta un personaggio che acquista spessore e il necessario risalto. Bene anche la lista dei comprimari, l’educata Ines di Elisa Savino, il solerte Ruiz di Dionigi D’Ostuni, il sonoro Vecchio zingaro di Salvatore Ciacalone e l’usato messo, puntuale come le poste svizzere, di Bo Schunnesson.
Nell’euforia generale di un teatro stracolmo di pubblico in gran parte straniero e italiano giunto da tutta la penisola per la recita domenicale, è stata salutata più che cordialmente anche la direzione di Daniele Rustioni, qui molto più a suo agio rispetto alla recente prova in Scala pochi mesi fa. Evidentemente ha studiato ed ha preso dimestichezza con la partitura. Alcuni attacchi (il coro degli zingari, sbavato sia in ingresso che in uscita) sono tuttora perfettibili e dovrebbe porre più attenzione alle esigenze del canto, cercando di sostenere gli artisti senza dare l‘impressione di tirar via. Ma si sa, in molti sono afflitti dalla mutite, malattia che ci si augura passi presto con l’esperienza. Buona la prestazione di coro, diretto con cura da Claudio Marino Moretti e dell’orchestra. Lo spettacolo, per la regia di Mariani e con le scene minimali (attrezzo più che altro) di Willy Orlandi, le belle luci di Chritian Pinaud, si è già visto ripetute volte ed altrettante rimosso per la sua sostanziale neutralità. Non infastidisce, non intralcia l’azione; soprattutto non stravolge la drammaturgia, e questo è già un merito. Sarà che si era talmente presi dalla musica, è sembrato migliorato rispetto alle visioni precedenti e dunque sdoganiamolo come buono anche se non travolgente.
Manrico: Gregory Kunde,
Leonora: Carmen Giannattasio,
Conte di Luna: Artur Rucinski,
Azucena: Veronica Simeoni,
Ferrando: Roberto Tagliavini,
Ines: Elisa Savino,
Ruiz: Dionigi D‘Ostuni,
Vecchio zingaro: Salvatore Ciacalone,
Usato messo: Bo Schunnesson.
Direttore: Daniele Rustioni.
M°del coro: Claudio Marino Moretti.
Regia: Lorenzo Mariani.
Scene e costumi: Willy Orlandi.
Luci: Christian Pinaud.
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
allestimento Fondazione Teatro La Fenice
Horacio Castiglione