Horacio Castiglione
Teatro alla Scala 31 ottobre e 6 novembre 2014
Chi avesse avuto la possibilità di soggiornare una settimana a Milano all’inzio del mese di novembre, avrebbe avuto un’occasione più unica che rara. Quella, cioè, di assistere a due, o più repliche, di Simon Boccanegra in cui si sono alternati nel ruolo del titolo due “monumenti” della vocalità, ormai consegnati alla Storia dell’Opera: Leo Nucci e Placido Domingo. Di più: queste recite scaligere che concludono la stagione 2013/14 e a cui seguirà il prossimo 7 di dicembre Fidelio, a inaugurare quella 2014/15, hanno offerto di fatto un doppio cast. Completamente diverso ed altrettanto interessante anche per il cambio del direttore d’orchestra: Stefano Ranzani ha diretto le recite protagonizzate da Nucci, Daniel Barenboim quelle con Domingo.
Lo spettacolo, dolente nota, piuttosto è sempre rimasto lo stesso. Quello già visto nel 2010, protagonista ancora e sempre l’inossidabile Domingo, per la regia di Federico Tiezzi con le scene di Pier Paolo Bisleri ed i costumi di Giovanna Buzzi. Non piacque allora, men che meno dopo quattro anni. Si tratta di un impianto sostanzialmente convenzionale, più che tradizionale. Nucci, durante le prove, ha avuto da dire -a ragione- su alcune incongruenze registiche (nello specifico la mancanza di una brocca e di un bicchiere per giustificare l’avvelenamento da parte di Paolo all’inizio del secondo atto) minacciando di lasciare la produzione qualora non si fosse provveduto a modificarle. L’ha vinta lui, ovviamente. Domingo, giunto all’ultimo momento in quanto era impegnato al Covent Garden di Londra nelle recite de I due Foscari, della regia pare non se ne sia dato eccessiva cura. E’ pur vero che partecipò allo stesso allestimento quattro anni fa in Scala e quindi in altre recite a Berlino, ma di fatto la regia se l’è fatta da sé, con movimenti scenici e posizioni che ha cambiato a suo agio in corso di recita. Ci si è chiesti come mai non si è ripreso, specie per questa occasione, il famoso allestimento firmato de Strehler che fece da splendida cornice alle memorabili recite dirette da Claudio Abbado quaranta e più anni fa, ma si teme che, come tanti altri bellissimi spettacoli, abbia preso la via del deposito e quindi sia finito al macero e dunque irrimediabilmente perso.
Tant’è, la cornice, per quanto misera, non ha alterato lo splendore del quadro: il verdiano Boccanegra, intriso nella sua “tinta” cupa ed inconfondibile. Accolto ogni sera da un successo a dir poco trionfale, mettendo per una volta d’accordo il temibile ed incontentabile loggione con la più malleabile e tollerante platea. Ha conosciuto nella lettura offerta da Stefano Ranzani l’immagine più solida e concreta. In grande spolvero orchestra e coro, questo mirabilmente istruito da Bruno Casoni, entrambi con suono ricco, ma raffinato e contenuto laddove richiesto e con una pulizia negli attacchi e in bella evidenza negli interventi degli strumenti negli incisi solistici. Ranzani rappresenta idealmente il tipo di direzione verdiana “all’italiana” di stampo antico e si rifà all’insegnamento di Gianandrea Gavazzeni, suo Maestro e mentore. Sostegno ideale del canto, e degli interpreti con cui idealemente respira, tensione ed espansione nei momenti di esplosione orchestrale e di concitazione scenica, ma sempre nel totale rispetto della musica e della volontà dell’Autore.
Barenboim ne offre una versione si si vuole più personale, ma pur apparendo più concentrato del solito -lui, l’uomo dai mille impegni- e più preciso ed attento, ogni tanto la lentezza del braccio ha dilatato i tempi con effetti pure suggestivi, ma al limite della resistenza per i cantanti in palcoscenico. Una lettura, come si dice in gergo, “a isarmonica” dove le accelerazioni improvvise, i turgori ed i clangori rispondono più ad un ridestarsi, letterale, del vecchio leone che ad una vera e propria esigenza teatrale e musicale. E’ stato comunque festeggiatissimo, e così pure Ranzani, dal pubblico e pure dall’orchestra, che non ha preso immediatamente la fuga, come è solito fare, verso l’uscita.
L’attesa e la resa di entrambi i cast non è stata delusa. Entrambi, Leo Nucci e Placido Domingo, hanno raggiunto un’apice artistico attestato ai massimi livelli e da cui non hanno la benché minima intenzione di scendere. Sono al di sopra di qualsiasi possibile giudizio critico: prendere o lasciare, insomma. Del resto, ed inutile negarlo, la gente si sposta in Italia e, soprattutto, arriva dall’estero per loro due: chi si reca a teatro in queste occasioni, affrontando spese di viaggio, di albergo ed il notevole costo del biglietto, ci va per sentire Nucci e Domingo, è ovvio. Il primo conserva una vitalità quasi spasmodica, irrefrenabile ed una sfacciata, insultante freschezza e cui si sommano la baldanza e la potenza vocale ormai proverbiali. Nel tempo e con infinite recite, ha maturato un Doge che passa dall’irruenza ed intemperanza giovanile, per altro contenute e dolenti, del prologo ad un progressivo cedimento senescente, che culmina in una scena della morte da manuale, pur mantenendo una linea di canto ineccepibile e con una voce autenticamente e sempre identificabile nel timbro del baritono.
Il secondo rimane e rimarrà inevitabilmente ed irriducibilmente tenore. Il problema, però, non si pone, poiché lo si può identificare in un nuovo tipo vocale, unico ed inimitabile, c’è da augurarselo: “Placido Domingo”, appunto. Questa parte di “vecchio padre” (che poi sulla carta tanto vecchio non dovrebbe essere: caso mai il vegliardo è Fiesco, guarda caso e in questo caso interpretato da due cantanti che di entrambi i Simoni anagraficamente potevano essere figli) come del resto quella di Francesco Foscari, gli si adatta particolarmente bene da un punto di vista interpretativo ed è palpabile che il buon Placido ci crede e la “sente”. Poi, pur prendendo per buona l’età dichiarata, il “miracolo” è evidente: la voce di Domingo è incredibilmente ferma, proiettata in avanti in maniera esemplare e superba, ricca di armonici anche nei pianissimi che riempono la Sala del Piermarini, la cui acustica risaputamente lascia molto a desiderare. Non dicasi l’attore, che domina la scena con indiscusso carisma -come del resto il nostro Nucci- attirando l’attenzione in modo tale che quando c’è lui ci si dimentica quasi degli altri, con una agilità fisica che ha dell’incredibile. La sua caduta, eseguita “con scenica scienza” come direbbe la Tosca, nella scena della morte fa sobbalzare sulla poltrona, tanto è realistica.
Insomma e per concludere, si deve essere grati ad entrambi i protagonisti per queste autentiche “master class” che ci regalano ad ogni loro esibizione. Specie i più giovani possono ammirare, in entrambi i casi, due artisti statuari, immensi. Un’organizzazione vocale che entrambi gestiscono ammirevolmente. Se si pensa che ci fu chi dava spacciato il Domingo “tenore” a 35 anni, cioè anno più anno meno quaranta anni fa, non si può che sorridere.
Non erano soli in scena. Con Nucci si sono esibiti la squisita Amelia/Maria di Carmen Giannattasio, intensa e liricamente coinvolgente, dalla voce vibrante e lucente nell’acuto e dal fraseggio accurato e partecipe, l’Adorno del tenore messicano Ramon Vargas, che ha mostrato la corda della sua pur bella voce affaticata nell’estremo acuto ed il valente Paolo interpretato dal bravo baritono Vitaly Bilyy. Pur accolto da generoso applauso, il bass-bariton russo Alexander Tsymbalyuk è parso inadeguato per la parte di Fiesco di cui, sostanzialmente, non possiede le note gravi. Penalizzato, per giunta, da un accento latitante e da una dizione erratica.
Con Domingo le cose sono andate forse ancora meglio. Iniziando dal ruolo certo non minore di Paolo. Verdi si raccomandava di procurare un baritono di vaglia per questa parte che anticipa, seppure in formato minore, Jago dell’Otello. Artur Rucinski, già apprezzato recentemente al Teatro La Fenice quale Conte di Luna ne Il trovatore, ne ha fatto una autentica creazione. Oltre alla bellezza della voce, questo giovane baritono polacco poco più che trentenne ha offerto una lettura intensa e approfondita della parte del “malvagio”, riscattandolo nella scena in cui viene condotto al ceppo con accenti di pentimento, più che di furioso rancore, per le sue terribili azioni, dando una luce “umana” al personaggio che il buon “Peppino” avrebbe sicuramente apprezzato.
Apprezzatissimo il tenore Fabio Sartori, seppure detentore di un fisico massiccio che la regia non ha certo aiutato imponendo dei costumi ingombranti, che canta semplicemente benissimo. La voce, baciata da Dio, è di quelle squisitamente “all’italiana”: morbida, carezzevole e maschia nel contempo. Colore virile, con riflessi baritonali, ma squillante ed espansa nell’acuto. Si aggiunga la delicatezza dell’interprete, incline alle mezze voci, al canto sussurrato in pianissimi sempre perfettamente appoggiati e, chiudendo gli occhi, non si fatica ad immaginare colui che è “Fra i Liguri il più prode, il più gentile…” come lo definisce Amelia. Questa ha trovato nel soprano ucraino Tatiana Serjan un’interprete credibile, dotata di una vocalità di tutto rispetto. Pure piega la voce in piani e pianissimi, cura il fraseggio con particolare attenzione. Il timbro non è particalrmente seducente, ma l’artista supplisce con grande sensibilità e musicalità questo naturale difetto. Orlin Anastassov, infine, ha la voce di autentico basso, per colore inconfondibile e con una proiezione che, senza essere tonitruante, è perfettamente centrata. L’interprete, infine, sa fraseggiare con pertinenza. Un Fiesco, insomma, assai convincente. Nei ruoli di fianco si sono distinti ad ogni recita l’ancella di Barbara Lavarian, il capitano dei balestrieri ed araldo di Luigi Albani e soprattutto il veterano basso Ernesto Panariello, di casa alla Scala, nella parte di Pietro.