Da buon siciliano, chi scrive vuole raccontare e spiegare la personalità di Vincenzo Bellini (1801 – 1835) in un modo diverso dalla routine delle critiche musicali e storiche che si è abituati leggere sulle riviste specializzate.
Ad oggi, infatti, quando si legge qualcosa su questo compositore si narra solamente delle vicissitudini della sua vita o solamente delle sue opere.
Ma Vincenzo Bellini, siciliano, non è persona comune, nel senso che la personalità di un siciliano è un insieme di alchimie che nascono e sono radicate nella stessa terra.
Terra di mare, sole, vento e fuoco, elementi questi della natura che si trovano ovunque, o quasi, ma in Sicilia in modo diverso che in altre parti dell’Italia. Nascere in Sicilia vuol dire avere il fuoco che scorre nelle vene, fuoco che arde dentro, che destabilizza ogni essere quotidianamente, fuoco che dà gioia e dolore allo stesso tempo, virilità e caducità. Fuoco che proviene da “a muntagna” (l’Etna), così come la chiama il catanese, e che è lo stesso verso il quale ogni giorno volge lo sguardo a nord per capire come si comporterà… se ha il fumante pennacchio o è quieta.
Così Bellini ha preso ispirazione per le sue composizioni, da quel fuoco dentro, da quell’acqua cristallina del mare, da quella brezza che accarezza continuamente la città di Catania, dai profumi che inebriano i sensi, dalla ginestra selvatica che spunta con prepotenza dalle rocce di lava dell’Etna.
Eppure, ad oggi, rare sono state le esecuzioni di sue opere dove si toccano con mano quegli elementi della natura che hanno ispirato il Cigno catanese; arte più lirica che drammatica, quella del Bellini, dalla linea melodica pura e limpida, spoglia di estrinseche complessità, dove le armonie, i contrappunti e gli effetti strumentali hanno valore soltanto in funzione del canto. Quel canto che lui amava e che sapeva mettere in musica in maniera riconoscibile tra tante, unica, sola e irripetibile, ma non per questo mielosa, cosa che invece si riscontra nelle esecuzioni moderne.
Bellini amava passeggiare per la sua città, per le vie del centro storico:Via Etnea, Piazza Duomo, Via Crociferi, Piazza Stesicoro, tutte legate alla sua infanzia. Ma Vincenzo amava anche il mare, infatti, andava spesso alla “marina” (al Porto), per respirare da vicino l’aria del mare e guardare il suo movimento lento ed ondeggiante, che lo ispirava nei suoi cantabili.
Ma essere siciliani vuol dire anche avere piena coscienza della morte, un mondo con cui si affronta la vita parallelamente, con fatalità, basta pensare alle sue Liriche da Camera, come ad esempio “Dolente immagine di Fille mia”o “Bella Nice, che d’amore” che di morte narrano, o come “Il Pirata”, dramma di soggetto siciliano e ricco di situazioni patetiche.
Forse tutto ciò ha indotto gli esecutori di oggi a travisarne la personalità anche nelle opere stesse , che vengono eseguite languidamente, con lentezza, sotto tono, quando invece è proprio qui che dovrebbe emergere quel fuoco che arde dentro, come la lava che, incandescente, cova dentro “a muntagna”. Basandosi su questo assunto, a parere di chi scrive, andrebbe rivista la letteratura musicale belliniana, piena di tempra ma allo stesso tempo di fatalità.
Oggi nella casa natale di Bellini si trova il Museo Belliniano, ricco di cimeli, strumenti e partiture del compositore che meriterebbero di essere visti, non tanto dai turisti, bensì dai musicisti che eseguono le sue musiche. Forse si inizierebbe a capire cosa in questa sede si vuol far intendere: respirare quella meravigliosa e sublime aria stantia di quelle stanze farebbe riflettere non poco! Allora sì che assisteremmo a veri capolavori della musica.
Salvatore Margarone