La traviata. Verdi. Milano

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18/12/2013 Teatro Alla Scala

Melodramma in tre atti

Libretto di Francesco M. Piave

Il giudizio su La Traviata che ha inaugurato la stagione 2013/2014 ed ha chiuso i festeggiamenti dell’anno Verdi-Wagner è stato pesantemente condizionato dalla messa in scena di Dmitri Tcherniakov, regia che ha diviso: geniale per alcuni “illuminati” della critica, orribile per il pubblico normale. Premesso che per me parlare bene di una regia che non tiene conto né della musica, né della trama, né del testo e neanche del contesto artistico e socio-culturale in cui l’opera è stata composta  è totalmente impossibile, vorrei porre l’attenzione su un altro aspetto.

In Italia i teatri d’opera sono quasi totalmente finanziati dal denaro pubblico, in base ad una legge che afferma che lo spettacolo è bene culturale e strumento indispensabile di consociazione civile e di affermazione dell’identità nazionale: tradotto in parole semplici che lo spettacolo deve avere un fine educativo. Detto questo mi piacerebbe che qualche luminare spiegasse che fine educativo può avere una regia che trasforma uno dei pilastri della cultura italiana in una telenovela sudamericana.

Chi ricorda la splendida parodia della telenovela brasiliana che negli anni 80’ fece il trio Marchesini-Lopez-Solenghi, nel finale del primo atto avrà sicuramente pensato: “bevi qualcosa Annina. Vuoi bere qualcosa Annina. Su dai bevi qualcosa Annina!

Le fondazioni liriche, Scala compresa, non sono delle istituzioni private che possono fare quello che vogliono, sono istituzioni pubbliche finanziate coi soldi dei contribuenti, coi soldi di quei “talebani”, come sono stati definiti dal sovrintendente Lissner, che hanno giustamente fischiato una regia non solo brutta ma anche povera di idee, perché quei contestatori rappresentano quelli che mantengono questo giocattolo, non solo pagando il biglietto ma anche pagando le tasse, e di conseguenza anche il cachet del sovrintendente.

Questi contestatori sono anche gli stessi, che lo scorso anno, tributarono ovazioni allo splendido Lohengrin diretto da Barenboim. La domanda che mi pongo e che probabilmente molti si saranno posti è: come è possibile passare in un anno da uno spettacolo di quella bellezza ad uno di questa brutezza.

Nella regia di Tcherniakov di Traviata non vi era nulla, ma cosa ancora più grave mancava l’abc della regia. Come insegna un grande regista come Roman Polanski (basta vedere il suo ultimo film: Venere in Pelliccia) sul palco non si può far fare due volte la stessa cosa ad un personaggio, cosa che invece il regista russo fa fare ad Alfredo facendogli stendere per due volte la sfoglia, cosa gravissima visto che la seconda volta lo fa mentre Germont sta cantando la sua aria, dimostrando – il regista – poco rispetto sia per il cantante che per la musica di Verdi, per il regista probabilmente troppo brutta e noiosa perché il pubblico possa stare attento. Altro grave e visibile difetto è stata la totale incapacità del regista di muovere le masse: il coro si è mosso sempre in blocco senza che nessuno mai si staccasse, sembrava un blocco unico, monolitico e, probabilmente, proprio per questo motivo sono state eliminate le zingarelle ed i toreri, trasformando uno dei momenti più frizzanti dell’opera in una noia mortale.

In realtà,  piaccia o non piaccia, Traviata è un’opera che sta all’interno del periodo in cui è stata composta, Violetta è un’eroina romantica, non sdolcinata, una donna che accetta il suo sacrificio, anzi che ci va incontro non perché emarginata e reietta da tutti ma perché, sapendo di dover morire, si prefigge uno scopo più alto: salvare l’anima. Infatti la sua sicurezza comincia a vacillare quando Germont le fa notare che “Giacchè non fur dal cielo tal voti benedetti!” ed in un crescendo culmina nel momento in cui ella può finalmente dire “di chi nel ciel tra gli angeli prega per lei, per te” cosicché: “Cessarono gli spasmi del dolore, in me rinasce… m’anima insolito vigore!… Ah! io ritorno a vivere!… Oh gioia!…”

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Se si sapesse leggere non ci sarebbe bisogno di altro, invece perché trasformare un momento di sublimazione così celestiale con: “Hanno suonato alla porta Annina. Mi è sembrato che hanno suonato alla porta Anninna. Forse hanno suonato alla porta Annina!” “Chi è?” “Sono Alfredo Germont Perito Peraria!” “Piacere sono Violetta Dolores!”. Una forma  che  abbandona  lettura e si trasforma in una pseudoparodia mal pensata e mal riuscita. Di certo Anna Marchesini avrebbe saputo fare una parodia molto più intelligente e divertente.

Alcuni critici, questi si “Talebani”, esaltano tutto questo dicendo che è la nuova frontiera del teatro internazionale ma, se questo è il nuovo, come mai a poca distanza dalla Scala c’è il del teatro Piccolo di Milano il cui direttore artistico Luca Ronconi (regista ormai considerato antico) con la sua Brechtiana Santa Giovanna dei Macelli (tutta italiana a cominciare dalla protagonista) ha realizzato una tournee trionfale in Europa, compresa la tappa di Mosca (patria di Tcherniakov). Questo dovrebbe far riflettere, anche molto, chi ha voglia di farlo.

Sul piano musicale le cose sono andate meglio. Ottima l’Orchestra, e raffinata l’interpretazione di Gatti, che non copre mai i cantanti e stacca tempi volutamente dilatati, ricca di sfumature, mai enfatica, se non quando diventa dirompente a sottolineare il carattere di Alfredo, ma, anzi, malinconica, con momenti di grandissima emozione, come, ad esempio, nell’incalzante, fino a togliere il fiato, confronto tra Violetta e Alfredo a casa di Flora, o nel finale, di grande intensità e pienezza di suono che rende evidente la discrepanza fra la musica e la scena.

Irina Lungu (in sostituzione della Damrau): Considerata la particolarità della regia, anche per i giochi di luci che, ad esempio, “isolano” Violetta quando parla tra sé e sé durante la festa nel Palazzo di Flora, è stata bravissima, nonostante le poche ore di prove. Per la disinvoltura con cui si è mossa sulla scena, la Lungu ha meritato la giusta ovazione che le è stata tributata nel finale. Voce solida, connotata da grande raffinatezza, bei filati, forse con una minore trasparenza nelle note acute, che però ci sono, e tutte, ha regalato autentiche emozioni in diversi momenti: ad es. “Dite alla giovine”, nel duetto con Germont nell’atto secondo, o l’ “Addio del passato”, applauditissimo, e ancor più il “Parigi, o caro”.

Volutamente volgare l’Alfredo di Piotr Beczala, che ci mette forse del suo, dipinto come un ragazzotto di campagna irrefrenabile e costantemente in preda all’agitazione – sottolineata perfettamente da Gatti, che, mi pare, dia fuoco, per così dire, all’orchestra, quando Alfredo prende la scena -, sempre “fuori posto”, anche nelle feste a sfondo newyorkese (o forse milanese). Il timbro è bello e la voce potente, qualche leggero calo nell’intonazione non inficia una prova complessivamente buona.

Altrettanto signorotto di provincia dai modi rigidi, poco aduso agli ambienti festaioli da “Città da bere” Giorgio Germont, correttamente interpretato da Željko Lučić. La voce è calda, ben proiettata e l’intonazione sicura, forse qua e là si sente la mancanza di qualche colore in più.

Ottimi i comprimari partendo da Roberto Accurso nel ruolo del Barone Douphol e Giuseppina Piunti in quello di Flora, trasformata per l’occasione in capo siux.

Completavano il cast Gastone di  Antonio Corianò, il medico Grenvil di Andrea Mastroni, il Marchese di Obigny del baritono Andrea Porta e Giuseppe di Nicola Pamio ed il giovane tenore Ernesto Petti che ha dato letteralmente corpo al Domestico di Flora.

Una nota a parte merita Mara Zampieri nel ruolo di una Annina onnipresente, più amica e confidente che cameriera di Violetta.

Ottimo vocalmente il coro preparato dal grande Bruno Casoni, anche se scenicamente è stato, come detto prima, trattato come un blocco monolitico.

Ora si spera che, conclusa questa operazione, tale messa in scena venga archiviata e per le prossime riproposizioni si riprenda quella storica e coerente, che piaccia o non piaccia, è firmata da una vera grande della regia internazionale che è Liliana Cavani.

Violetta                      Irina Lungu

Flora Bervoix                         Giuseppina Piunti

Annina                        Mara Zampieri

Alfredo                       Germont Piotr Beczala

Giorgio                       Germont Željko Lučić

Gastone                      Antonio Corianò

Barone Douphol                     Roberto Accurso

Marchese d’Obigny                Andrea Porta

Dottor Grenvil                       Andrea Mastroni

Giuseppe                    Nicola Pamio

Domestico di Flora                Ernesto Petti

Commissionario                     Ernesto Panariello

Direttore                     Daniele Gatti

Maestro del Coro                   Bruno Casoni

Regia e scene              Dmitri Tcherniakov

Costumi                      Elena Zaytseva

Luci                Gleb Filschtinsky

Nuova produzione Teatro alla Scala

Domenico Gatto