Il tema del Macerata Opera Festival, intitolato quest’anno Mediterraneo, si fa sentire forte nella scelta de Il trovatore come terzo titolo in programma, non solo perché l’opera è ambientata in Aragona, ma perché può essere letta come una storia di diversità, come uno scontro fra mentalità differenti, una lotta che va inevitabilmente a discapito del gruppo etnico minoritario il quale viene perseguitato da quello maggioritario che ne vuole soffocare l’anelito di libertà e le istanze di novità. Una realtà questa ancora oggi presentissima nei Paesi che si affacciano sul Mare nostrum, da sempre terra di incontri e scontri, cui fa riferimento anche la scelta simbolica degli ideatori del Festival di stampare il volume di sala in 2899 copie, tanti quanti sono i morti accertati che viaggiavano sui barconi della speranza e che sono stati inghiottiti dalle acque mediterranee.
L’atmosfera voluta dal regista Francisco Negrin, complici scene e costumi di Louis Désiré, è quasi gotica, cupa, dominata dai colori nero e rosso, vi si insinuano frequentemente i fantasmi del passato, incarnati nelle figure della vecchia zingara e del bambino arsi sul rogo, i quali divengono veri e propri protagonisti della vicenda intervenendo continuamente come all’interno di un thriller psicologico a ricordarci quanto i drammi di ieri tornino ciclicamente a disturbare le nostre menti e a condizionare i nostri comportamenti.
La scena è quasi vuota, dominata da due lunghe tavolate parallele, bordate di luci fluorescenti dal colore cangiante, che fungono ora da mensa ora da passerella, da una torre nera posta sulla sinistra e da sette grandi lampadari al neon che pendono dalla muraglia di fondo dello Sferisterio posizionati a distanze irregolari fra loro. Il fuoco la fa da padrone: arde all’interno di ciotole grandi e piccole collocate sulle tavolate e brucia rami applicati al muro di mattoni. I protagonisti fanno il loro ingresso in scena tramite botole poste sul pavimento, abbigliati con semplicità ma con efficacia, sfruttando i colori rosso e nero; il coro striscia, vestito di scuro e con i volti dei componenti dipinti in bianco a mo’ di maschera.
La vecchia zingara compare fin dall’inizio, sulla torre, mossa da estro bacchico; lega a sé i suoi a più riprese con un filo, rosso di sangue e di fuoco, vincolandoli al suo volere di vendetta, fino allo Spannung della scena finale in cui le fiamme si insinuano ovunque, invadendo anche le due tavolate parallele.
Eccellente e perfettamente equilibrato al proprio interno il cast. Pietro Pretti è un Manrico fiero e sicuro, sonoro nell’emissione e scenicamente convincente; la voce è dotata di un timbro chiaro, l’estensione è ottima, l’intonazione ineccepibile e l’acuto svetta cristallino. Al suo fianco Anna Pirozzi che sfoggia uno strumento rilevante, corposo, rotondo, solido in tutti i registri; la sua Leonora appare ricca di temperamento, di grande peso drammatico e brilla per gestione dei fiati, oltre che per la cura puntuale dell’emissione con cui la Pirozzi ben sottolinea ogni sfumatura, ogni dettaglio. Splendida l’Azucena di Enkelejda Shkosa che, oltre a possedere potenti mezzi vocali, dal colore scuro e piacevolmente brunito, ha saputo mettere in evidenza capacità attoriali non indifferenti, delineando in modo scabro, essenziale, ma al contempo efficacissimo, una figura di zingara chiusa nel proprio io, incapace di staccarsi dalla propria storia, da un passato opprimente, tutta incentrata sui legami familiari passati e presenti. Marco Caria ben tratteggia dal canto suo la figura di un Conte di Luna roso da odio e gelosia, felice nella varietà degli accenti, dalla vocalità autorevole e sicura, al cui fianco ben opera l’apprezzabile Ferrando di Alessandro Spina.
Con loro Rosanna Lo Greco (Ines), Augusto Celsi (Ruiz), Alessandro Pucci (un messo) e i due mimi rappresentanti rispettivamente la zingara (Adua De Candia) e il fanciullo (Leonardo Buratti).
Buona la prestazione del Coro Lirico Marchigiano “V. Bellini” che ha saputo fronteggiare in modo brillante anche alcune obiettive difficoltà sceniche.
Direzione ricca di passione ed energia per un grande Daniel Oren che cerca il contrasto fra l’abbandono lirico e l’impeto d’azione, insiti certo nella partitura, ma messi entrambi in particolare evidenza in questa esecuzione con inusitata maestria e finezza interpretative.
Arena Sferisterio letteralmente gremita di un pubblico variegato ed entusiasta che ha regalato a tutti gli interpreti una decina di minuti di ovazioni.
Simone Manfredini