Dopo 200 anni dal debutto a Napoli, l’Otello di Rossini inaugura la stagione nel teatro in cui egli stesso direttore artistico dal 1815 al 1822.
È abbastanza evidente che dietro la riproposta del Rossini “napoletano” cioè delle opere scritte dal Pesarese a Napoli, vi sia un più ampio ed intelligente progetto del direttore artistico Paolo Pinamonti, di recupero di tutta una tradizione storico-culturale che ha al centro il Lirico napoletano, una sorta di “San Carlo Renaissance”.
Nel 2016, oltre all’Otello rossiniano, che mancava a Napoli da 150 anni, sono stati ricordati il bicentenario della morte di Giovanni Paisiello con due opere e una mostra, i trecento anno dalla nascita di Carlo III di Borbone, a cui il teatro deve il suo nome; nelle prossime stagioni, saranno certamente valorizzati altri eventi, personalità e opere che hanno un particolare significato per il San Carlo.
L’Otello rossiniano è un lavoro non molto noto ai frequentatori d’opera di oggi, anche se di tanto in tanto compare in qualche cartellone: per buona parte dell’Ottocento invece è stato considerato uno dei capolavori di Rossini, ed è stata tra le più rappresentate. Poi nel 1887 Verdi presentò il suo Otello, e da allora la versione rossiniana uscì dal repertorio ordinario.
Il librettista di Rossini, Francesco Berio di Salsa, non attinse direttamente a Shakespeare, ma a fonti secondarie, che prevedevano un ruolo più defilato di Iago rispetto a Rodrigo.
La versione di Verdi è molto più rispettosa del modello originario: le differenze sono evidenti: tra le altre, Otello e Desdemona in Rossini non hanno appassionate scene d’amore, Iago non ha nessuna aria che lo caratterizza, il fazzoletto è sostituito da una lettera
Comunque, l’Otello può non essere la migliore opera di Rossini in assoluto, ma contiene musica meravigliosa, soprattutto nel terzo atto, da cui promana un senso di vera tragedia: la Canzone del Salice di Desdemona è bella quanto quella verdiana, e tutto lo spartito è pieno di genuino pathos.
Il regista Amos Gitai parte dall’idea (non particolarmente brillante) di presentare, nelle didascalie iniziali, Otello come un migrante, ma la sua rimane solo un’intenzione dal punto di vista drammaturgico, senza sviluppi ulteriori nel dramma: ce lo ricorderà ad un certo punto solo il filmato di un barcone di migranti proiettato a tutta scena mentre si stanno per celebrare le nozze tra Rodrigo e Desdemona; la quale (scoperto che il promesso sposo non era Otello, come lei credeva, e al quale aveva già formulato voti nuziali) rifiuterà.
A parte questo guizzo creativo, la messinscena è stata abbastanza fiacca, senza un’idea precisa di ciò che si vuole rappresenta in scena. Il regista non ha accompagnato nemmeno i passaggi strumentali con qualcosa di coreograficamente interessante. Ad esempio, durante la musica marziale, quando Otello sbarca e si presenta al Doge, i coristi non sembravano avere avuto istruzioni, e si muovevano sul palcoscenico apparentemente senza direttive.
Le scene di Dante Ferretti erano molto belle e maestose. Nel primo atto era raffigurato l’interno della nave con cui Otello sbarca a Venezia, che diventa poi il luogo in cui si avvicendano i vari personaggi e la storia si sviluppa. Nel secondo e nel terzo atto imponenti colonne orientaleggianti, un camino e poi gigantesche finestre a rappresentare un palazzo patrizio veneziano in cui la tragedia si compirà.
I costumi di Gabriella Pescucci presentavano uno stile indefinito: si passava dalle divise dei tre tenori (Ortello, Iago, Rodrigo) agli abiti civili contemporanei di Elmiro e degli altri. Desdemona vestiva semplici tuniche allacciate in vita, che fasciavano il corpo della Machaidze con grazia ed eleganza.
Il punto di forza della serata è stato il cast vocale, di qualità straordinaria. John Osborn si è confermato un raffinato interprete per un ruolo che presenta grandi difficoltà, e richiede, oltre a un registro che deve spaziare dalle note più alte fino a momenti baritonali, anche un forte senso drammatico.
Nino Machaidze è stata una straordinaria Desdemona: ha dimostrato di possedere una tecnica finissima e limpidezza di suono, sensibilità nel vibrato e nel fraseggio, dolcezza e disperazione nella presenza scenica. La sua interpretazione della “Canzone del Salice” è stata commovente oltre che impeccabile, e la sua preghiera, prima che il marito la uccida, è stata resa con intensa partecipazione.
Dmitry Korchak ha saputo sfruttare ogni aspetto del ruolo di Rodrigo, a cui ha prestato una tecnica ragguardevole e una voce dal suono pulito e squillante. Per quanto riguarda la parte di Iago, Juan Francisco Gatell ha dato un convincente ritratto del sinistro personaggio.
Miro Palazzi è stato eccellente nel ruolo Elmiro, il padre di Desdemona, mentre Gaia Petrone ha interpretato Emilia, la confidente di Desdemona, e la sua voce chiara si integrava perfettamente con quella più brunita di Nino Machaidze.
Bravissimi anche i cantanti dei ruoli minori: Nicola Pamio nella parte del Doge ed Enrico Iviglia a cui il regista fa cantare la Canzone del Gondoliere (che è originariamente un fuoriscena) dal palco reale.
Come sempre di alta professionalità l’Orchestra e il Coro del San Carlo: il direttore Gabriele Ferro ha chiesto di rialzare la buca dell’orchestra all’altezza della platea, come ai tempi di Rossini, ma a parte questo scrupolo storico, la sua direzione è apparsa un po’ monocorde. Ferro è stato certamente meticoloso, ma senza mostrare la verve e il dinamismo che il pubblico si sarebbe aspettato per un’opera di Rossini. È mancata una certa densità e varietà di timbri e di colori per dare espressione alla tragedia. Comunque, applausi vivissimi alla fine, soprattutto (e meritatamente) per i cantanti.
Lorenzo Fiorito