Recensione de I Puritani a Firenze

Recensione de I Puritani a Firenze

Il Teatro dell’Opera di Firenze trasporta finalmente il suo pubblico in uno dei gradi titoli impegnativi del melodramma italiano; dopo venticinque anni i Puritani tornano a Firenze in un clima di discussione e apprezzamento. L’allestimento, in coproduzione con il Teatro Regio di Torino, è opera del giovane Fabio Ceresa che imposta un lavoro di regia complesso nel suo significato recondito, in cui si mischiano vicende a ritroso e l’azione scenica è spostata di quasi due secoli. Il tempo perciò è il protagonista di questi Puritani, un tempo che vede la sua manifestazione nel logorio delle cose, nella cattedrale gotica che magnificamente è alla base delle scene di Tiziano Santi o dell’abito di Elvira che perde man mano la sua opulenza. Ceresa immerge i “suoi” Puritani in un’ambientazione che riporta ai romanzi di Scott, una Scozia romantica e ottocentesca; ma anche un’ ambientazione macabra e tetra, dove il nero la fa da padrone, il nero della morte di sicuro, che prende il sopravvento anche nel velo nuziale di Elvira. Il tutto viene vissuto come un sogno, un incubo da cui i protagonisti sembrano uscirne sconfitti anziché vincitori; il tutto si compie nel finale in cui il dissolvimento generale delle persone e delle cose sembra avere un epilogo di morte e caducità. Una regia che certamente è di forte impatto emotivo, che sorprende e che nello stesso tempo non stravolge il contenuto del libretto. Una regia che incanala una drammaturgia piuttosto scontata verso forti emozioni. Una regia che però ha indubbiamente alcune pecche: l’insistenza sul sepolcrale che la trasforma in un’opera statica più di quello che non lo è già di suo; la fuoriuscita di cadaveri dalle tombe nel primo atto come fossero zombie danzanti; un miscuglio di stili e di epoche che non rendono molto chiara la connotazione storica precisa dell’opera (guerra civile inglese). Elementi che non a tutti sono piaciuti. Un merito alle bellissime luci di Marco Filibeck che riescono pienamente nell’intento di illuminare quel poco che la teatralità dell’ambientazione lo permette per rendere al meglio i passi della vicenda e ad essere suggestive quel tanto che serve per dare un taglio romantico crepuscolare alla vicenda. Belli ma privi di originalità i costumi di Giuseppe Palella che ha insistito sugli ormai inflazionati cappotti e sull’esclusività dell’ovviamente nero o scuro ad eccezione del bianco abito nuziale di Elvira. Un sistema complesso, che può suscitare qualche perplessità qua e là, ma che dona all’opera una dignità che ultimamente sembrava aver perso, dona a I Puritani quella consistenza delle regie dei grandi autori nel solco di una tradizione rivisitata e innovativa.

Intensa ed espressiva la direzione di Matteo Beltrami, alla guida dell’Orchestra del Maggio. I colori che Beltrami riesce a far uscire dalle note belliniane sono vivi e corposo e la sua mano riesce bene ad amalgamarsi con le voci sul palcoscenico. Una lettura la sua che ha cercato di scavare nei personaggi, riuscendo vivace e coerente.

Recensione de I Puritani a Firenze

Il secondo cast è stato in generale all’altezza del tutto. Preceduta da una fama di soprano con doti vocali eccezionali, la cubana Maria Aleida non viene meno alla sua fama solo in alcune parti dell’opera. Per il resto la voce è piccola e monocroma e sembra tendere ad un flebile vibrato. Eccezionale indubbiamente l’estensione che la Aleida esibisce con naturalezza soprattutto nelle variazioni. Ottimo temperamento come ottima è l’intonazione, pienamente nel ruolo è stata lungamente applaudita non solo per la avvenenza fisica ma anche per quelle doti naturali che ne fanno quasi un portento dell’estensione.

Jesùs Lèon ha dato voce ad Arturo. Il tenore messicano ha dalla sua un ottimo timbro e sovracuti a portata di ugola, ma manca dello spessore che il ruolo richiede.

Sicuro e corretto Riccardo Zanellato in sir Giorgio. Il basso possiede una buona tecnica vocale anche se tende ad avere un fraseggio monocorde.

Julian Kim in sir Riccardo è stato decisamente la voce migliore della serata. Il baritono coreano, oltre ad avere il giusto peso scenico, possiede una voce morbida ed omogenea e sapientemente controllata; riesce a raggiungere il registro acuto con scioltezza ed eleganza, tratteggiando un personaggio credibile e austero.

Voce corposa e pulita, ottima presenza scenica per Martina Belli in Enrichetta di Francia. Ottima prova e presenza vocale e scenica autorevole per Gianluca Margheri in lord Gualtiero. Corretto Saverio Fiore in Bruno.

Degno di lode il coro del Maggio diretto dal maestro Lorenzo Fratini, in un’opera che lo vede protagonista in più parti.

Qualche poltrona vuota ma nel complesso buona partecipazione di pubblico piuttosto freddo ma che ha saputo tributare calorosi applausi finali a tutti i protagonisti.

Mirko Bertolini