Finite le recite di questo Fidelio, che segna il passaggio di testimone e le consegne dall’uscente sovrintendente Stephan Lissner, che lo ha di fatto programmato e prodotto, all’entrante Alexander Pereira, il quale ha debuttato con un conflitto d’interesse, nel tentativo di riciclare allestimenti salisburghesi da lui prodotti e farli ricomprare alla Scala risanando il deficit austriaco con soldi italiani, si possono fare delle riflessioni ed avventurare pronostoci sulla prossima programmazione del Teatro alla Scala. Una stagione che si anticipa e presenta come trionfo se non proprio dell’ovvio, sì della compiacenza verso un pubblico che prevedibilmente sarà numeroso di turisti in visita all’EXPO 2015 dal 1° maggio in avanti.
Innanzi tutto la perorazione, vera e propria supplica, di Pereira ai loggionisti -riunendo per la verità due organizzazioni che sono da sempre allineate con la direzione, se non addirittura sostitutive di una claque che alcuni, addirittura, rimpiangono- di non “buhare” allestimenti e, soprattutto, artisti che, altrimenti, si rischierebbe di non ascoltare più sotto la vetusta volta della sala del Piermarini. Il primo riscontro di questa “ubbidienza” lo si è avuto la sera del 7 dicembre, alla “prima” accolta da un successo di stima da parte dei soliti presenzialisti e da chiamate coi toni del trionfo provenienti dai piani alti, all’unisono benevolenti verso tutto e tutti.
Eppure, dopo le zucchine nel secondo e le meringhe del terzo atto de La traviata dello scorso anno, in questa occasione ci sarebbe stato spazio per una sonora contestazione del grigio allestimento, che non ha avuto nemmeno il coraggio della provocazione, elemento indispensabile a qualsiasi allestimento con pretesa di “modernità” che si rispetti e che voglia, in qualche maniera, lasciare un segno almeno nella cronaca immediata dei fatti.
Iniziamo dunque dalla regista inglese Deborah Warner, che pure aveva proposto una assai apprezzata lettura di Morte a Venezia di Britten qualche stagione fa. Ma se là potè contare con un protagonista d’eccezione e costruire intorno a lui un discorso “minimalista” di straordinaria efficacia teatrale, qui è parsa di una disarmante ingenuità e povera di idee. Nella complessa scena, sostanzialmente unica, corporea -ovviamente e prevedibilmente assai costosa- disegnata e costruita da Chloe Obolensky, che ha pure firmato i “costumi” -se tali si possono considerare stracci che parevano acquistati al mercatino dell’usato- abbiamo rivisto la “solita” fabbrica in disuso, ma buona a tutti gli usi: carcere, sotterraneo e, con il crollo di un muro… di tela, piazza di Siviglia. Un ambiente sordido e pure mal illuminato, in cui la Warner si è prodotta in un’accozzaglia di “ideuzze” – i cani degli aguzzini, costituendo la variante faunistica- rispettando sostanzialmente una convenzione teatrale, dove gli atteggiamenti “attualizzati” con l’aggiunta di allusioni assai dubbie sul versante sessuale (l’evitabile bacio saffico tra Fidelio/Leonore e Marzelline essendo l’immancabile ciliegina sulla torta) sostituiscono la mano sul cuore ed il dito al cielo, ma non sono altrettanti “déjà vu” noiosi e ripetitivi, che per giunta fanno a pugni con quanto la musica suggerisce.
La confusione, probabilmente voluta visto che la figurazione è stata disinvoltamente usata per entrambi, tra perseguitati e perseguitori, ha costituito un’altro elemento di disorientamento, per non parlare dell’improvvisa nevicata, che “fa tanto Natale”, ma di cui non si colgono eventuali implicazioni psico-sociali, che conclude il festoso finale: teoricamente siamo a Siviglia, in primavera. Si taccia del colpo di pistola che ha finito il malvagio Pizarro, fuggito tempestivamente in quinta e dello sventolare festante di drappi rossi, sciarpe e scialletti -alcuni rossoneri- che più che durante l’inno alla libertà ha omologato il coro ad un gruppo di tifosi al derby Milan-Inter.
Sistemata la parte visiva, quella musicale ha segnato pure l’addio di Daniel Barenboim quale direttore principale del Teatro milanese. Festeggiatissimo e festante, nonostante una lettura eseguita sì a memoria, ma navigando spesso contro il palcoscenico. La scelta, discutibilissima, di scegliere per introduzione la sinfonia Leonore 2 e di non integrare con la Leonore 3 il cambio scena nel secondo atto, è parsa infelice, soprattutto per la lettura pesante e morchiosa, non scevra di sbavature in orchestra, che pure sotto altre bacchette suona con ben altri risultati. Non hanno giovato i tempi a “fisarmonica”, spesso rallentati, ma senza un’urgenza e tensione drammatica, e quel che è peggio senza il sostegno del canto, alternati ad accelerazioni repentine, con esagerazioni dinamiche, per cui si è passati da suoni evanescenti a momenti di frastuono e concitazione. Ne hanno fatto le spese sia i solisti, spesso inudibili, che il coro, a tratti scomposto, certo non al suo solito livello di precisione sotto la pur autorevole preparazione di Bruno Casoni. In particolare quello, attesissimo non meno che il fatidico “Va pensiero” del Nabucco, dei prigionieri che escono all’aria e che basta tornare indietro di qualche anno, si ricorda di una potenza evocatrice assoluta sotto la bacchetta di Riccardo Muti.
Note dolenti pure per i solisti. E sì che la sera del 10 dicembre, a cui si riferisce la presente cronaca, il ruolo di Florestano è stato inaspettatamente cantato da Jonas Kaufmann, essendo il titolare Klaus Florian Vogt colpito da improvviso raffreddore. L’applauso scrosciante che ha accolto la comunicazione di Pereira, uscito dal sipario per dare la notizia (che per altro già si sapeva dalla locandina) è stato poi coronato da un trionfo personale meritatissimo alla fine dell’opera. Promosso dal ruolo di Jaquino, che interpretò nella precedente edizione alla Scala, la prova di Kaufmann, in un ruolo sofferente e piagato che gli è per molti versi congeniale, è stata doppiamente lodevole, poichè è arrivato direttamente in volo da Vienna, è entrato in teatro nel corso del primo atto, ha preso qualche accordo con Baenboim durante l’intervallo ed è, finalmente, andato in scena senza quasi avere il tempo di scaldarsi la voce. Chapeau!
Ma certo un ottimo Florestan non può compensare un mediocre Fidelio. Anja Kampe, pur valida come interprete, è arrivata alla seconda recita in condizioni vocali assai precarie e, seppure non se ne sia dato annuncio di malattia, è parsa chiaramente sofferente nel corso del secondo atto, dopo aver siglato nel primo una prova dimenticabile con l’esecuzione senza lode della difficile aria di Leonore. La scrittura vocale esige delle note in zona medio grave che sono estranee, e suonano vuote od assenti, all’organizzazione del soprano, sostanzialmente di lirico puro. La Kampe poi si è trovata quasi ad annaspare nelle pur esigue agilità che il ruolo prevede, con dei suoni scomposti che erano, in verità, prossimi al grido. Altre, per molto meno, sarebbero state contestate in corso d’opera. Lei è passata indenne e, alla fine, pure applauditissima.
Non meno che la inconsistente Marzelline impersonata dal soprano Mojca Erdmann, voce da soubrettina, acidula e vetrosa, senza proiezione, ma compensata da una figura graziosa. Così pure il Jaquino del tenore Florian Hoffmann, seppure puntuale e preciso nei suoi interventi, è parso dal timbro linfatico e senza spessore. Molto meglio le voci gravi: il baritono Peter Mattei, nel breve, ma non marginale ruolo di Don Fernando, pure penalizzato da una regia che ne ha banalizzato l’autorità, si è disimpegnato con onore. Così il Pizarro interpretato con convinzione ed efficacemente da Frank Struckmann, tagliato con l’accetta, è vero è prossimo allo Sprechgesang più che al canto, che ormai lascia vocalmente a desiderare, è parso sdoganabile visto che il ruolo è da “villain”. E’ quindi emerso su tutti il buon Rocco del bass-bariton Kwangchul Youn, paterno e pure generoso nel canto, eseguito con colori e anche morbidezza.
Nei loro meteorici interventi il primo e secondo prigioniero, rispettivamente Oreste Cosimo e Devis Longo usciti dal coro, hanno dimostrato di possedere una voce che metteva in ombra quella dei solisti. E con ciò si dice tutto.
Horacio Castiglione