Recensione: Les Contes d’Hoffmann a Piacenza

LES CONTES D’HOFFMANN

A nemmeno un’ora di macchina, o di treno, da Milano, appena attraversato il fiume Po, la stagione del Teatro Muncipale di Piacenza, che vanta a capo della direzione generale e della direzione artistica due donne, evento più unico che raro in Italia e forse nel mondo, rispettivamente Angela Longieri e Cristina Ferrari, offre molti spunti di interesse ed una qualità artistica, un coraggio nella scelta dei titoli in cartello da primissimo teatro.

Le contes d’Hoffmann fanno così debutto nella città emiliana, nella meravigliosa cornice del bellissimo teatro. E’pur vero che, a discapito di una comunicazione deficitaria ed auspicabilmente perfettibile, a livello interegionale di questo indiscusso capolavoro se ne sono offerte con questa, a scarsa distanza di tempo e di chilometri l‘una dall‘altra, ben tre edizioni diverse: la prima nel circuito Aslico, in Lombardia, la seconda a Novara, in Piemonte. Ma a detta di più d’uno tra coloro che hanno potuto assistere a tutte e tre, la piacentina vince di gran lunga per qualità dello spettacolo, per livello musicale e vocale e per l’edizione scelta: cioè la revisione di Michael Kaye e di Jean-Christophe Keck pubblicata dall’editore Schott e rappresentata in Italia dalla Sonzogno.

Risaputamente l’opera incompiuta di Offenbach ha subito -è una sorta di “storia infinita”- una tormentata genesi e, successivamente, un non meno tribolato percorso esecutivo nel corso dei tempi. Per motivi di spazio ci si limita qui a citare la più eseguita edizione Chaudens, pubblicata a seguito di alcune recite avvenute a Montecarlo nel 1904, che è quella che ha garantito la circolazione dell’opera rendendola relativamente popolare in tutto il mondo. Epperò con una successione degli atti non prevista dall’Autore e cioé con l’atto veneziano di Giulietta che precede quello di Antonia e, soprattutto, con una quantità di musica, certo bellissima, ma altrettanto spuria: si pensi alla bellissima aria di Dapertutto “Scintille, diamant” estrapolata su un brano tratto dall’operetta “Le voiage sur la Lune” ed il trascinante settimino, che prende l‘avvio sui versi “Hélas! Je vais encore le suivre”, elaborato sfruttando il tema della famosissima barcarola.

Brani che abbiamo riascoltato a Piacenza. E dunque, per nostra fortuna, non ce ne si è voluti privare. Peccato che poi, però, per contenere la durata dell’opera (non dimentichiamo che siamo in Italia e che dopo le tre ore sindacali scattano gli straordinari per le masse artistiche) si sia sacrificato lo struggente duetto tra il Poeta e la Cortigiana che precede e dove, tra l’altro, drammaturgicamente si spiega la perdita del riflesso dell’immagine di Hoffmann allo specchio, prezzo imposto dal maligno Dapertutto a Giulietta per ottenere il prezioso diamante.

Ciò detto, si sono apprezzati gli inserimenti di Kaye e Keck, iniziando dalla prima aria della Musa “Disparais, o sirène!”. Musa che, trasformatasi in Nicklausse, ha per altro mantenuto i couplets del “petit coq en cuivre” al posto del riscoperto bolero. Al posto dell’aria di Coppélius, si è ascoltato il più mosso terzetto ”J’ai des yeux”, e così via, compresa l’altra stupenda aria intonata da Nicklausse nell’atto d’Antonia “Vois sous l’archet frémissant” e quindi nell’atto di Giulietta la brillante aria “L’amour lui dit: la belle!”.

LES CONTES D’HOFFMANN

In questa edizione vi sono molti cambiamenti armonici percepibili anche all’interno dei brani più famosi già inseriti nella successione dettata dalla Choudens: i couplets di Olympia, per esempio. Il coro, infine ha un ruolo musicale e drammatico ancor più importante. Spesso è trattato a cappella, come nel caso del suggestivo incipit dell’epilogo. Insomma, si è trattato  di una versione stimolante e per molti  versi curiosa pure per chi ha dimestichezza con l’opera. Opera che rimane comunque e sempre un capolavoro proprio per quel senso di imprendibile incompiutezza a cui l’ha votata, con la morte prematura, Offenbach. Opera di cui mai e poi mai esisterà un’edizione “defintiva”.

Passando alla recensione dello spettacolo, va subito detto che questo è riuscitissimo. Accolto con un entusiasmo che solitamente il pubblico emiliano riserva ai titoli più popolari di Verdi. Da sottolineare la sala particolarmente gremita, autorità e Sindaco in testa, anche da una notevole presenza di addetti ai lavori, pure francesi: tra questi il direttore del mensile Opéra Magazine Richard Martet, e con lui i direttori dei Teatri di Tolone e di Nancy, dove lo spettacolo verrà ripreso dopo le recite distribuite tra Piacenza, Modena e Reggio Emilia. Segno questo di una politica di scambio culturale che mira in alto.

Il regista Nicola Berloffa ha realizzato un lavoro davvero originale, coadiuvato da un team assolutamente perfetto. Grazie alla bella e funzionale scena, praticamente unica creata da Fabio Cherstich: un ambiente fedelmente Biedermayer dominato da un grande caminetto da cui, oltre alla Musa, escono avvolti dal fumo i personaggi dei tre racconti, mentre sul fondo un sipario si leva lasciando scoprire gli ambienti che caratterizzano i tre diversi atti e così il prologo ed epilogo. Fedeli ed azzeccati pure i bellissimi costumi disegnati da Valeria Donata Bettella: particolarmente ispirati quelli dell’atto di Olympia in cui gran parte del coro è costituito da automi vestiti alla tirolese. Suggestive e ben dosate le luci disposte da Luca Antolini che, nell’atto di Antonia, ha ricreato un aspetto misterioso, funereo e quasi vampiresco.

Al successo dello spettacolo ha dato un contributo determinante il bravissimo coro, istruito a meraviglia da Corrado Casati. Coro che si ammira sia per la precisione e compattezza del suono, anche quando si deve dividere nei singoli settori, sia per l’abilità del gioco scenico. Merito indubbio del regista che trovando una predisposizione alla recitazione ha creato diversi “caratteri” dando a quasi tutti un inusitato spessore protaginistico. Non è possibile menzionarli tutti, ma almeno vanno citati i due solisti, Alessio Verna e Andrea Bianchi, rispettivamente Wolfram e Wilhelm e, per simpatia ed individuabilità, il contralto Federica Bartoli ed il basso Angelo Lodetti. Spesso ci si lamenta della staticità dei cori italiani: forse sarà il caso di quelli delle Fondazioni più consolidate, che hanno stipendi alti e pretendono, ciò nonostante, anacronistici indennizzi per cantare due parole in lingua straniera, garantite da contratti inoppugnabili. Non è certo il caso del coro di Piacenza, duttile ed in grado di eseguire alla perfezione, oltre che il canto in francese, una coreografia tutt’altro che semplice: bravo!

Lode anche, ed incondizionata, all’ottima Orchestra Regionale dell’Emilia Romagna che ha trovato nel direttore Christopher Franklin una bacchetta ispirata e sicura, nel garantire un ottimo rapporto buca-palcoscenico, con dinamiche misurate ad ottenere sempre il perfetto sostegno alle voci che sono corse sempre in vanti e senza problemi. Straordinario pure il ritmo incalzante e sostenuto nel procedere teatrale, apprezzato specie nell’atto di Antonia, quello più drammatico. Nostalgico e ed evocante, però nei brani più lirici e soavi, la barcarola tra gli altri.

Opportuna ed apprezzatissima pure la scelta delle voci, perfettamente dosate nei rispettivi ruoli e molto ben amalgamate nel contesto musicale. Innanzi tutto gratissima presenza quella del tenore Giorgio Berrugi, al suo debutto nel ruolo per molti versi “ciclopico” di Hoffmann, certo perfettibile in corso di repliche, ma già così ottimo per tenuta e per una enfasi nell’accento ed una cura nel fraseggio che ne farà, c’è da scommeterlo, un interprete di riferimento. Sicuro nell’acuto, quanto completo anche in zona centrale senza tradire mai un timbro squisitamente tenorile, si è imposto nella “Légende de Kleinzack” laddove nel settore centrale “Ah! sa figure était charmante!” ha convinto per la intensità della parola cantata, e così via fino alla disperazione finale “Ah! Je suis fou!” che precede il bellissimo finale, intonato prima dalla Musa e quindi da tutti gli altri “Des cendres de ton coeur”, che rimane una delle pagini più belle -e dunque il merito maggiore di Kaye e Keck per averla riscoperta- dell’opera.

LES CONTES D’HOFFMANN

Violette Polchi ha incarnato il doppio ruolo di Musa e Nicklausse con perfetta aderenza scenica ed interpretativa. Unico neo, in un’organizzazione vocale per altro ottima, la natura sopranile che, sebbene giovi all’acuto, rende sorde le note in zona centrale e grave. Dettaglio quasi trascurabile nel contesto di una buona prestazione. Ottime, senza se e senza ma, sia la brillante e svettante Olympia del soprano Elisa Cenni, semplicemente perfetta come bambola, deliziosa anche nella figura, sia l’intensa Antonia e pure sfuggente Giulietta, oltre che Stella nella meteorica apparizione finale, cantata dal soprano messicano Maria Katzarava. Una voce che si impone come lirico pieno, ma con facilità estrema all’acuto (Re sovracuti ben piazzati tanto nello “svenimento” di Antonia, quanto nella acuta aria di Giulietta rispolverata dai revisori lo spartito) con un corpo notevole in zona centrale e dotata di una proiezione imponente. Un elemento da tenere ben presente e da seguire con attenzione nel pur ricco panorama sopranile. Rimanendo in campo femminile, bene a fuoco la evocazione della Madre di Antonia, nella voce di Aline Martin, sorta di fantasma risorto dalla tomba ed incalzante alle illusioni di successo della figlia, fomentate dal Dr. Miracle.

I quattro ruoli del maligno sono stati rivestiti dal bass-bariton Simone Alberghini, la cui presenza scenica è importante: qui si è esibito in quattro ben diverse differenziazioni, passando dall’immagine borghese e melliflua del consigliere Lindorf, con una pregevole esecuzione dell’aria “Dans le roles d’amoureux langoureux”, a quella tragi-comica di Coppélius, alla satanica del Dr.Miracle ed infine a quella affascinante, seppure macabra e sottilmente perfida, di Dapertutto, culminando con un’esecuzione ammirevole ed applauditissima della spuria “Scintille, diamant”.

Festeggiatissimi pure gli altri solisti: il tenore Florian Caffiero, Andrés, Spalanzani, Frantz e Pitichinaccio, il tenore Oreste Cosimo, Nathanael e stravagante Cochenille, qui in versione molto comica ed in travesti di vecchia lamentosa, e così pure il solerte Hermann e quindi Schlemil del baritono Josef Skarka e il puntuale Maitre Luther e Crespel del baritono Olivier Dejan.

Horacio Castiglione