Recensione «Un ballo in maschera» a Bologna

 ballo in maschera bologna kunde

Direttamente da la Scala il Ballo in maschera approda sulle scene del Teatro felsineo per la sua inaugurazione della stagione 2015. Un allestimento che prima ancora di varcare le porte bolognesi aveva già fatto discutere e rizzare un muro davanti alla proposta registica di Damiano Micheletto. Nulla di nuovo, anche perché è risaputo come Michieletto intenda l’opera lirica e la sua notorietà è dovuta anche a questo, sulla linea dei tanti altri datati registi europei. La sua è una rivisitazione bella e buona del libretto, può piacere o no, può sembrare coerente o meno, può sembrare dissacrante o no, ma ciò non toglie che si scorge un pieno lavoro di regia inteso a reinterpretare una vicenda ambientata nel XVIII secolo a Boston e che Michieletto ambienta in una Boston (riteniamo noi) contemporanea. Il governatore inglese Riccardo non è altro che un candidato alle elezioni politiche americane e il resto viene da sé: il palazzo del governatore diventa la sede della campagna elettorale, Ulrica è una predicatrice televisiva americana carismatica che oltre a predire il futuro effettua guarigioni, Silvano è un marines, Oscar una impertinente segretaria, Renato e Amelia una coppia in crisi, l’orrido campo il retro delle gradinate di una campo da baseball di una località malfamata della città, con tanto di prostituta e ladro che rapina Amelia; Riccardo entra nel campo a bordo di una elegante auto sulla quale Amelia verrà caricata da un furente Renato per essere condotta alle “porte” della città. L’abitazione dei due sposi è un ufficio con tanto di banner elettorali di Riccardo e infine il ballo. Non c’è nessun ballo in maschera ed è forse questa la maggiore incongruenza della regia di Michieletto. Tutto può avere una sua logica in una revisione post moderna del libretto, ma ciò che sostituisce il ballo in maschera finale, un party elettorale, fa perdere ogni riferimento al testo ed è questa la debolezza di una regia che, piaccia o non piaccia, non rappresenta più una novità nel piano teatrale italiano. Le contestazioni di Milano e quelle più pacate di Bologna sono pagine scontate, come le esaltazioni smisurate. La regia di Michieletto è forte, pregnante proprio perché esula da un contesto librettistico e tradizionale, non è un affresco d’autore, ma un graffito di periferia: arte anch’essa ma con un valore temporalmente limitato. Una regia che si fa apprezzare, anche se ormai questo genere di rivisitazioni fa discutere solamente pour parler, in cui fila tutto liscio se non nell’ultimo atto. Non solo il mancato ballo ma anche la stessa morte di Riccardo con lui che si sdoppia e chi parla è Amelia che legge una lettera del defunto mente il suo “spirito” canta ciò che dovrebbe essere scritto nella lettera, ha un sapore notevole di visto e rivisto che lascia veramente perplessi. Le scene di Paolo  Fantin, sobrie e raffinate, raffigurano esattamente ciò che il regista vuole dire, in una visione minuziosa e didascalica: l’ufficio campagna elettorale, il salone dei meeting della predicatrice, lo stesso orrido campo delle prostitute, la casa ufficio di Renato sono descritti in modo particolareggiato e perfettamente coerenti con il tutto. Ottime le luci di Alessandro Carletti. Da una regia così pregnante e tardivamente sovversiva possiamo solo arrivare ad una conclusione: il canto e la musica che fine hanno fatto? Perché possiamo considerare il lavoro di Michieletto provocatorio e innovativo (anche se ormai datato), ma il tutto a discapito del canto, come si evince indubbiamente nel secondo atto, dove lo spettatore è troppo preso e divertito nel vedere cosa combinano i congiurati per ascoltare la splendida voce della Siri mentre canta con  drammatica partecipazione il suo “A chi nel mondo crudel più mai…”. Purtroppo in queste regie, pur impegnative e con un degno studio alle spalle, passa solo l’idea dell’irriverenza e della polemica, mettendo in secondo piano musica e canto e cantanti, dove a Bologna hanno dimostrato di valere ben oltre questo fugace allestimento.

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Indubbiamente la parte canora e musicale, finalmente, torna a far da padrona sul palcoscenico del Comunale. Michele Mariotti, novello direttore artistico del Teatro, era alla guida dell’Orchestra del Comunale. Il giovane direttore ha saputo dare un colore particolarissimo alla partitura, una lettura drammatica e intensa costante e profonda. Si nota una cura nello studio delle note verdiane, in cui nulla è fuori posto, nulla è forzato, nulla è estraneo a Verdi. Una mano che con fermezza e docilità ha portato l’orchestra a dei momenti sublimi. Meritata l’ovazione che Mariotti ha ricevuto al termine e ad ogni comparsa in buca; dimostrazione non solo della sua grande capacità di rendere viva la musica, ma di come sia riuscito ad entrare nel cuore del pubblico bolognese grazie ad una tecnica impeccabile, ad una maestria e dedizione impareggiabili e ad una umiltà unica.

Il cast canoro ha dimostrato pienamente di essere composto di alcune delle migliori voci attualmente sulla piazza europea.

Il Riccardo di Gregory Kunde non ha bisogno di molte considerazioni: perfetto! Travolgente e appassionato, canto di una limpidezza e di ricchezza di fraseggio unica. Ha colto nel pieno il personaggio, suscitando vere emozioni padroneggiandolo con sicurezza e autorità.

Un’Amelia perfettamente nel ruolo Maria Josè Siri, al suo debutto nel personaggio verdiano. Una voce senza cedimenti, un pathos coinvolgente e coloritura adeguata, l’hanno resa una vera rivelazione.

Luca Salsi è un Renato vocalmente impeccabile, che si trova pienamente a suo agio nel personaggio. Fraseggio elegante, buona coloritura, recitazione sanguigna, ne fanno uno dei migliori baritoni verdiani del momento.

Un’Ulrica non pienamente convincente quella di Elena Manistina, non sempre in perfetta intonazione e non pienamente nel personaggio.

Anche l’Oscar di Beatrice Dìaz non ha dato i risultati sperati, l’esuberanza che il personaggio richiede. Ma per entrambi senza dubbio le scelte registiche hanno contribuito notevolmente.

Buoni i comprimari, in primo luogo il Silvano di Paolo Orecchia con una voce decisamente da risentire. Incisivi e nella parte Fabrizio Beggi (Samuel) e Simon Lim (Tom).

Prova molto soddisfacente per il Coro del Comunale, preparato come sempre dal maestro Andrea Faidutti.

Teatro Comunale pieno, un pubblico molto favorevolmente predisposto verso i cantanti a cui ha tributato meritati applausi prolungati e verso il maestro Mariotti, per il quale c’è stata una vera e propria ovazione. Perplessità verso la regia.

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Riccardo                               Gregory Kunde        
Renato                                   Luca Salsi    
Amelia                                   Maria Josè Siri         
Ulrica                                    Elena Manistina       
Oscar                                    Beatriz Dìaz  
Silvano                                  Paolo Orecchia        
Samuel                                  Fabrizio Beggi          
Tom                                        Simon Lim    
Un giudice                            Bruno Lazzaretti      
Un servo d’Amelia                 Luca Visani

                        
Direttore                                          Michele Mariotti     
Maestro del Coro                            Andrea Faidutti        
Regia                                                 Damiano Michieletto          
Scene                                                Paolo Fantin             
Costumi                                            Carla Teti      
Luci                                                   Alessandro Carletti

Maestro del Coro di voci bianche    Alhambra Superchi           

 

Orchestra e Coro del Teatro Comunale di Bologna      
Coro di voci bianche del Teatro Comunale       
Nuova produzione in collaborazione con il Teatro alla Scala di Milano

Teatro Comunale di Bologna, 14 gennaio 2015

 

Mirko Bertolini