La regia di Brockhaus torna al Teatro dell’Opera di Firenze portando con sé una scia di polemiche e qualche contestazioni, in uno spettacolo che si fa apprezzare per alcune voci e la direzione del maestro Mehta.
Un Rigoletto, quello presentato al Teatro dell’Opera di Firenze, che non poteva non creare contestazioni o rivedere un concetto classico del buffone verdiano. La regia di Henning Brockhaus ha un taglio innovativo, e nonostante sia uno spettacolo ormai datato – ha le sue origine nell’allestimento del Teatro Regio di Parma del 2001 – continua a dividere il pubblico. Il mondo di questo Rigoletto – nella concezione di Brockhaus – è atemporale, una realtà onirica e allo stesso tempo ipnotica. Sparisce tutto ciò che è il mondo del buffone della corte di Mantova per proiettarsi in una specie di circo, in cui i personaggi sono alla fine degli eterni clown che come una ossessione nella mente di Rigoletto gli ricordano la vendetta, una vendetta che è contornata da una lussuria in cui il protagonista si trova a vivere compiacente e avido di quel piacere che causerà la perdita della figlia. Un vortice che trasforma il buffone in un uomo dalla duplice personalità, rappresentato dal suo cambiar d’abito quando deve incontrare la figlia, un uomo tormentato dalla bramosia del piacere, rappresentato dalle prostitute che continuamente lo circondano e lo avvinghiano, un uomo che alla fine è un pagliaccio, rappresentato dal nano clown che lo segue come un’ombra. Il dramma messo in scena da Brockhaus si ammanta di fosche tinte rosso cupo che primeggiano per tutti i tre atti, è il colore dominante, il colore della passione ma anche del sangue, nelle scene realizzate da Ezio Toffolutti, che rappresentano perennemente un ambiente claustrofobico e soffocante, in cui la confusione regna sovrana; la scena della casa di Rigoletto invece avviene in un loculo inserito in una specie di tendone circense, in cui ci si deve arrampicare su una scala e dove Gilda vive in una culla, simbolo della sua purezza e della volontà del padre di mantenerla come una bambina. Il simbolismo di Brockhaus è in ogni elemento, compreso nella maschera da maiale che Rigoletto indossa nella scena del rapimento di Gilda, spesso però troppo difficile da comprendere o che sovrasta l’effettiva significazione della drammaturgia. Brockhaus si inerpica volendo narrare un dramma metafisico e psicologico, in cui Rigoletto è più che un vinto è la causa stessa della sua rovina in un karma legato al suo essere più satiro dello stesso Duca. Rigoletto non è più un eroe ma un ipocrita prigioniero dei suoi stessi vizi. La regia non aiuta certamente i cantanti, in questo vortice di perenne caos orgiastico sulla scena e in scelte più o meno felici; l’eccessività voluta da Brockhaus dopo un inizio entusiasmante, diventa a lungo andare pesante e fa perdere allo spettatore i cardini del dramma e sembra che la maggior parte degli elementi sia fine a se stessa. Inevitabili le contestazioni. Funzionali all’idea atemporale e onirica i costumi di Patricia Toffolutti.
La direzione di Zubin Metha, alla guida dell’Orchestra del Maggio Fiorentino, è fortemente caratterizzata dal carisma che il direttore indiano riesce a sprigionare. Il “suo” Rigoletto è scavato e analizzato in ogni nota che non viene perduta, viene evitato ogni eccesso per far emergere quelle parti di sofferente drammaticità che solo i grandi maestri sanno far uscire da questo Verdi così intenso. Vi possono essere certamente momenti discutibili, ma non si può negare che la direzione di Mehta avesse uno smalto tutto particolare, unico, che gli slanci lirici fossero di una purezza di suono memorabili, eleganti e raffinati. A giudicare dall’accoglienza trionfale tributatagli dal pubblico fiorentino si potrebbe concludere che il vero protagonista di questo Rigoletto fosse proprio lui.
Nel ruolo del protagonista il baritono bulgaro Vladimir Stoyanov, impersona un credibile personaggio, con tutti i limiti datagli dalla regia. La voce è buona, bella e curata, peccato un po’ limitata per estensione e chiara per il personaggio. La sua grande esperienza nel ruolo oltre a supplire qualche mancanza vocale, mette in evidenza il fraseggio curato e un canto deciso ed elegante, riuscendo – dove la regia glielo permette – a tirar fuori un Rigoletto sofferente e altamente drammatico. Julia Novikova è stata una applauditissima Gilda, in cui le doti canore sono emerse fin da subito, dando poi un fulgido esempio di bravura nell’aria “Tutte le sere al tempio”; la voce non è amplissima ma produce acuti puliti e d’effetto. Più che sufficiente la prova di Ivan Magrì, in un estroverso Duca di Mantova. Il tenore catanese, pur dotato di un buon strumento vocale, è molto altalenante, in momenti presenta difficoltà in cui la voce non è fluida e non accattivante. Alcune arie molto apprezzate e applaudite rendono comunque una prova accettabile. Giorgio Giuseppini delinea un valido Sparafucile, con una voce di basso possente, profonda e morbida, pienamente nel personaggio e particolarmente apprezzato. Anna Malavasi è una Maddalena sensuale e dal timbro caldo, la cui riuscita nel personaggio non è dovuta solo al physique du role, ma anche alla bella voce. Brava anche Chiara Fracasso in Giovanna, dalla bella voce di contralto. Ricordiamo anche i vari comprimari in prove che meritano giustamente la menzione: Konstantin Gorny (Monterone), Italo Proferisce (Marullo), Luca Casalin (Borsa), Nicolò Ceriani (Ceprano), Sabrina Testa (Contessa di Ceprano), Vito Luciano Roberti (Usciere), Irene Favro (Paggio). Come sempre si deve sottolineare l’eccellenza del Coro del Maggio Musicale Fiorentino diretto dal maestro Lorenzo Fratini.
In un Teatro dell’Opera esaurito, un pubblico giovane ha accolto con grande calore il maestro Mehta e i cantanti, più freddamente la regia.
Mirko Bertolini
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