Si disquisisce spesso a teatro su quanto un allestimento operistico debba essere il più possibile aderente alla volontà dell’autore, intendendo in realtà per quest’ultima ciò che descrive il libretto (che ricordiamo il più delle volte zoppicante esito del massacro della censura) piuttosto che una sua libera interpretazione da parte del regista.
La questione è annosa e gli schieramenti ormai fatti e formati al punto che, prima ancora che uno spettacolo abbia il suo inizio, già si percepiscono ‘rumors’ sollevati da sostenitori o detrattori con l’intento di perpetrare la loro eterna lotta, sempre nella difesa di ciò che voleva l’autore.
Partendo innanzitutto dal fatto che ciò che voleva l’autore potrebbero ipotizzarlo unicamente i ricercatori, che infatti ad ogni ritrovamento di nuovi carteggi avanzano ipotesi sempre fondate su fonti certe e certificate per sostenere le loro teorie, tutto il resto è e rimane una rispettabilissima opinione personale, più o meno professionalmente motivata.
Eccoci dunque a fronte di nuova produzione di Stiffelio in edizione critica presentata, con sacrosanto coraggio, dal Teatro Regio di Parma in coproduzione con il Teatro Comunale di Bologna nell’ambito del Festival Verdi nella prestigiosa sede del Teatro Farnese di Parma, che sbaraglia il campo, ponendosi in una dimensione diversa ed altra.
La regia di Graham Vick stravolge infatti ogni tipo di prospettiva e rovescia partitura, spazio scenico e ruolo canonico del pubblico dal suo interno. Ogni riferimento tradizionale è spazzato via, a partire dalla ripartizione degli spazi in teatro che, piuttosto che raccontare una storia soffermandosi sui suoi numeri canonici, la ospitano condividendone la contemporaneità, mai messa in discussione.
In questo senso la scelta di un’opera quale Stiffelio non è potuta certo essere casuale, una partitura attualissima, logicamente osteggiata dalla censura e per nulla compresa a causa di una drammaticità assoluta quanto lividamente contemporanea.
Un impianto assolutamente teatrale e drammatico sostiene l’impalcatura teatrale dello spartito che non conosce alcuno schema convenzionale. Quasi teatro di conversazione, il dramma si pone come un potente scontro di ideologie, specchio di ipocrisie e violenza d’inaudita ferocia e quasi naturale appare la scelta del regista, il quale ci costringe ad entrare dentro quel messaggio potente attraverso il suo tessuto narrativo, assolutamente immutato.
Vick non tocca la drammaturgia, che resta pilastro centrale della narrazione, ma vi gira intorno invitando il pubblico a leggerne la storia da un altro punto di vista. La sua azione consiste nello In questo ambito si muoveva un cast eccellente che, nella sua totalità, ha unito alle qualità vocali una notevole abilità recitativa, messa particolarmente alla prova sia dal tipo di spettacolo che dalla particolare vicinanza e sinergia con il pubblico, silente ma anch’esso interprete di questa produzione.
Il tenore Luciano Ganci nel ruolo del titolo esibiva un timbro interessante, sicuro nella tessitura e ben sostenuto tecnicamente, mostrava inoltre un ‘attenta cura nel fraseggio ed una corretta teatralità che gli consentiva, senza strafare, di comunicare il tormento del suo personaggio che, in questo allestimento, investiva eterogenee quanto spinose variabili.
Notevole per giusta vocalità, tormentati accenti ed accurata teatralità, il soprano Maria Katzarava nel ruolo di Lina riusciva ad unire una timbrica morbida e ricca di armonici ad un’espressività sempre misurata e vincente.
Il baritono Francesco Landolfi è artista sopraffino specie per l’uso sempre attento della sua vocalità, alla quale gli armonici regalano naturale teatralità e la sua attenzione nel cesellare il ruolo centrale di Stankar è totale. Davvero perfido e sgusciante, la sua interpretazione arriva a toccare in profondità la complessa e terribile lettura di Graham Vick, che assorda con la sua crudezza ogni ipocrita sordità e, di conseguenza, l’animo dello spettatore. Un’interpretazione completa in cui cantante ed attore si scambiavano di continuo ed in cui la teatralità era la sola costante.
Completavano il cast Giovanni Sala (Raffaele), Emanuele Cordaro (Jorg), Blagoj Nacoski (Federico) e Cecilia Bernini (Dorotea).
Il M° Guillermo Garcia Calvo dirigeva con attenzione e con un giusto sentire l’orchestra del Teatro Comunicale di Bologna riuscendo a definire un’atmosfera avvolgente e ferrigna al tempo stesso.
Molto bene anche il Coro del Comunale (peraltro il più delle volte confuso con il pubblico ) diretto dal M° Andrea Faidutti.
Applausi entusiastici al termine per tutti gli interpreti ed il Direttore per questo spettacolo che, pur rifacendosi nella memoria all’Orlando Furioso ronconiano, ne rilegge e sposta i significati e, con buona pace di tutti, dimostra che in teatro si può davvero ed ancora comunicare, ora nulla potrà più tornare placidamente come prima, o almeno si spera.
Silvia Campana