Turandot a Novara, ovvero un miracolo all’italiana

Turandot a Novara, ovvero un miracolo all’italiana
Maria Billeri ©Mainino

La stagione del Teatro Coccia di Novara comprende titoli di prosa, di balletto, Musical, operetta e, per tradizione, d’opera. Il primo appuntamento del 2015 è stato quello con l’ultimo, incompiuto capolavoro di Puccini, Turandot. Produzione nata sotto i migliori auspici musicali, contando con il soprano Daniela Dessì protagonista, affiancata dal tenore azerbagiano Yusif Eyvazo, più noto come nuovo compagno di Anna Netrebko. Ma proprio lui a inizio prove cancellò l’ingaggio. Al suo posto fu subito chiamato il solido tenore veneto Walter Fraccaro, che di Calaf ne ha macinati a josa nel corso degli anni, e fin qui tutto bene. Il vero guaio, che ha rasentato la tragedia di sospendere le due recite previste, si è presentato quattro ore prima della prova generale: Daniela Dessì, colpita da improvvisa influenza, ha dato forfait.

Il panico si è superato grazie alla disponibilità immediata del soprano Maria Billeri, che se ne stava beatamente nella sua casa in Toscana. Prelevata in macchina ed attraversando l’Appennino innevato in tempo record, si è fiondata a Novara, dove nel frattempo la si attendeva con ansia, rimandando di un’ora l’inizio della prova, in realtà anteprima aperta al pubblico. Detto e fatto: il soprano arriva in teatro ad opera già iniziata, ha appena il tempo di vestirsi e darsi una spolverata di trucco e viene subito catapultata in palcoscenico per la scena degli enigmi. La recita si conclude così, poiché se è vero che la Billeri aveva debuttato il ruolo a Cagliari l’estate scorsa, v’è anche da dire che là si eseguì l’opera fin dove la compose Puccini e cioè senza il “finale Alfano”. La nostra “eroina” -altro che Principessa di gelo!- in due giorni ha messo in gola il duettone con il tenore: memoria di ferro.

Miracolo “all’italiana” è vero, ma anche vocalità a prova di bomba, musicalità adamantina e saldezza di nervi come pochi altri possono vantare. Questa la breve cronaca di un’avventura finita assai bene, con un pubblico che l’ha festeggiata non solo per il coraggio e la determinazione, ma soprattutto per la bravura. La Billeri, infatti, si impone oggi come una delle più autorevoli Turandot su piazza, e non solo quella italiana. La vocalità, solida e ricca di armonici, è una di quelle che si stagliano sempre, anche sui pieni di orchestra e coro, come per esempio nel trionfale finale secondo. Va aggiunto che la peculiarità del timbro, che poi sostanzialmente è quello di un “liricone” all’antica, cioè ricco nel centro, ma svettante nell’acuto, la rende perfettamente individuabile. Il suono è ricco e ben proiettato, magari non proprio carezzevole, ma certo adatto ai ruoli che richiedono una forza interiore, un’aggressività ed anche, come in questo caso, il tono della crudeltà femminile: si pensa ad Abigaille, a Medea, alla Lady del Macbeth; tutti ruoli che, con la sua autorevole Norma, la vedono primeggiare. Il ché non vuol dire che la Billeri non domini un legato perfetto, non sappia modulare i suoni dal pianissimo al fortissimo, non le riescano messe di voce seducenti ed ammalianti. Insomma, non è stata certo una Turandot di “au sauvatage” o, peggio, di ripiego. Il suo nome dovrebbe figurare tra i primi in cartelli nei teatri internazionali. La sua sostituzione, in fin dei conti, si è rivelata una fortuna, dimostrando, tra l’altro, di avere una presa del personaggio ben maturata, tale da potersi inserire in questo come in qualsiasi altro spettacolo.

Turandot a Novara, ovvero un miracolo all’italiana

Spettacolo affidato a Novara alla neo regista, in campo operistico, Mercedes Martini. La quale, coi presumibili pochi mezzi a disposizione, ha voluto una scena minimale, non senza pretese socio-politiche che realmente stridono con la concezione favolistica del Gozzi ed, ancor più, con la psicologia dei personaggi intesa da Puccini. Le buone intenzioni spesso non bastano: le idee c’erano, magari non tutte condivisibili, ma bisogna anche saperle sviluppare con coerenza. In definitiva questa Turandot a Novara è parsa abbozzata, quando non addirittura naïve. Tentare di descrivere la società cinese attuale, con i suoi ritmi frenetici di lavoro -il coro sferruzzava a maglia come le “tricoteuses” dell’Andrea Chénier o, in alternativa, sfregava bastoncini con moti autistici- poco ha a che fare con il racconto e con quanto suggerisce la musica. Né hanno aiutato i costumi in tono, ma miseri, di Elena Bianchini e la “non” scena, per giunta non sempre ben illuminata, di Angelo Linzalata. Tutti, però, si sono beneficiati dell’accoglienza cordiale del pubblico. Il quale ha premiato per la sostanziale vitalità, più che per la precisione musicale, il volenteroso coro -in gran parte costituito da “aficionados” con una decina di elementi aggiunti scelti tra i professionisti- istruito dal pervicace Maestro Mauro Rolfi. Meglio la precisa orchestra Filarmonica, diretta con valentia da Matteo Beltrami, tra i direttori della nuova generazione italiana fedele alla nostra consolidata tradizione operistica. Beltrami ha pure portato a termine un’altra prodezza, poiché le prove di Turandot si incrociavano con la concomitante andata in scena a Firenze de I puritani da lui diretti. Qui, oltre a estrarre dal lussureggiante spartito i preziosi cromatismi con ricchezza di dettagli nel far emergere la strumentazione modernissima, ha garantito magistralmente il rapporto ideale col palcoscenico, seguendo e sostenendo a meraviglia le ragioni del canto.

Canto difeso con grande professionalità, come anticipato, dal tenore Walter Fraccaro, dal timbro generoso, virile e potente. Fraccaro, oltre a dare un’interpretazione intensa e partecipe, ha una sicurezza invidiabile nell’acuto, squillante e tenuto con baldanza. Il bis richiesto a furor di popolo del celeberrimo arioso “Nessun dorma” è stato inevitabile e, come capita spesso, cantato ancor meglio. 

Molto brava, particolarmente adatta ad affiancare con salda vocalità la “prepotenza” dei due colleghi, la vibrante Liù del soprano sardo Francesca Sassu, che si sta imponendo nel repertorio lirico con una lodevole progressione nello scegliere il repertorio. Applauditissima, pure lei, sia nell’invocante “Signore ascolta”, quanto nel commovente, “vero” finale dell’opera: la morte di Liù.

Una nota speciale meritano le tre maschere, che nell’economia dell’opera svolgono un ruolo determinante: Bruno Praticò ha prestato la sua straripante simpatia a Ping, mentre Pang e Pong erano rispettivamente i tenori Saverio Pugliese e Matteo Falcier, uno più bravo dell’altro, elementi preziosi e da non perdere di vista, non solo per ruoli di fianco. Vanno ancora segnalati l’autorevole Timur del basso Elia Todisco, il tonante Mandarino del baritono Daniele Cusari e lo squillante Imperatore Altoum del tenore Nicola Pisanello, seppure ridicolizzato da parrucca e barba, con un costume che sembrava uscito dal film “Il pianeta delle scimmie”.

Horacio Castiglione