Cosa possiamo aggiungere alla presentazione di quest’opera? Magari qualche cenno storico in più, per favorire i molti che ad oggi non hanno avuto modo di approcciarsi con questo genere del primissimo novecento. Dopo l’insuccesso di Guntram (1894) e il successo tiepido di Feuersnot (1901), definite dallo stesso Strauss opere di «apprendistato wagneriano», Salomé rappresenta il più improvviso e al contempo discusso capolavoro della storia dell’opera tedesca post-wagneriana. Raccolse inoltre fin dalle sue prime apparizioni un successo tanto più straordinario e clamoroso, se si considera che l’opera ebbe battesimo in un’epoca in cui il pubblico di tutta Europa andava dividendosi tra fautori dell’avanguardia e della tradizione. O forse, proprio a causa di ciò, tale successo è giustificabile, essendo Salomé opera ambivalente: un lavoro – per stare alle parole che Thomas Mann mette in bocca ad Adrian Leverkühn, il personaggio del suo Doktor Faustus – «in cui come non mai avanguardismo e sicurezza di successo sono uniti in esemplare confidenza», lavoro di un «rivoluzionario fortunato, audace e conciliante al tempo stesso!». Salomé è a ogni modo una delle opere del Novecento più rappresentate al mondo, anche se nei primi decenni della sua storia la circolazione fu penalizzata, oltre che dalla scabrosità del soggetto, dalla censura nazista in Germania e da quella puritana in ambiente anglosassone.
L’idea di musicare la Salomé di Wilde fu suggerita a Strauss dal poeta viennese Anton Lindner (del quale un testo è presente nella raccolta straussiana dei Lieder op. 37) che, in seguito all’interessamento del compositore, si cimentò in una prova di riduzione del testo. L’ opera venne scritta in lingua francese durante un soggiorno del drammaturgo a Parigi appositamente per l’attrice Sarah Bernhardt la quale, nonostante le numerose prove, si rifiutò di interpretare il personaggio sulle scene, a causa dello scandalo che aveva travolto Wilde. Strauss, tuttavia, preferì la traduzione tedesca della scrittrice Hedwig Lachmann utilizzata per una rappresentazione in prosa della tragedia, alla quale assistette. Il testo del bellissimo libretto corrisponde dunque, se non per qualche taglio e qualche variante, alla fedele traduzione dell’originale francese di Oscar Wilde.
All’epoca della composizione di Salomé, che impegnò il musicista bavarese dai primi mesi del 1902 al settembre 1904 per la stesura dell’abbozzo, e fino al giugno 1905 per l’orchestrazione, risalgono anche le prime schermaglie del lungo e controverso rapporto che Strauss intrattenne con Hugo von Hofmannsthal, suo futuro librettista. Il letterato aveva sottoposto un suo soggetto al musicista e al rifiuto di questi, impegnato appunto con Salomé, reagì facendo notare come la corretta pronuncia dell’accento del nome della sensuale fanciulla protagonista dell’opera non fosse né ‘Sàlome’ (alla tedesca) né ‘Salomé’ (alla francese, come compare in Wilde), bensì ‘Salòme’, alla greca; Strauss continuò tuttavia a intendere il nome secondo la pronuncia tedesca.
Ma veniamo alla serata: nel buio del teatro si illuminano solamente le fredde mura del palazzo di Erode, scarne, usurate dal tempo, quasi fossero mura “primitive”, sono gli ambienti dove si svolge l’intera opera che con dei piccoli accorgimenti tecnici della moderna epoca si trasformano in trono scavati nella stessa roccia.
Scelta migliore non poteva fare lo scenografo Tiziano Santi, che insieme alla regista Rosetta Cucchi e la costumista Claudia Pernigotti, hanno saputo rendere magnificamente l’ambientazione di quest’opera che molto spesso viene travisata o oltraggiata esagerando con effetti plateali, realizzando invece un allestimento nuovo, tutto genovese, di grande impatto scenico, anche se l’azione in quest’opera è di suo un po’ statica, ma ben congegnata e studiata anche nei piccoli dettagli. Le luci sono realizzate da Luciano Novelli, da un’idea di D. M. Wood.
Voci potenti, sicure, quelle dei protagonisti che, vista l’ardua tessitura, non si sono lasciati intimorire ed hanno interpretato ottimamente nel complesso l’intera opera in un atto unico. Lise Lindstrom è Salomé, voce penetrante, squillante e ricca nella sua tessitura, artista a tutto tondo che ha trasferito al pubblico l’idea della protagonista di questo dramma, donna confusa tra amore terreno e fede.
Affiancata da ottimi partners tra cui Herwig Pecoraro e Jane Henschelg, rispettivamente nei ruoli di Herodes ed Herodias, padre e madre di Salomé, lui dotato di bel timbro chiaro e potente, lei di voce bruna da mezzosoprano, hanno messo in scena tutta la loro grande esperienza artistica, regalando altissimi momenti drammaturgici ma nel contempo un piglio ed interpretazione notevole accarezzando con le loro voci il tessuto orchestrale straussiano ricco di sfaccettature ritmiche e melodiche.
Altro interprete degno di nota è Jochanaan, interpretato da Mark Delavan. Molto bella e profonda la sua voce da basso che dagli inferi del palcoscenico, relegato nella prigione nei sotterranei del palazzo, intonava una vocalità piena, sicura e di grande effetto. Insomma un cast centrato e ben costituito quello pensato per questa Salomé: d’altra parte si sa che non tutti possono cantare questo repertorio, in quanto necessita oltre che ad esperienza, una vocalità di un certo tipo.
Buona la performance di Patrick Vogel nel ruolo di Narraboth, che purtroppo sparisce presto dalla scena.
Momento magico è stato sicuramente quello della “danza dei sette veli” di Salomè, dove in questa produzione troviamo una ballerina, Beate Vollack, in controfigura a Salomé (Lise Lindstrom). Nell’intervista andata in onda durante la serata, la stessa Lindstrom ha dichiarato che era la prima volta che non effettuava lei stessa la danza interpretando Salomé.
Musica in divenire quindi, ricca, sferzante, lussureggiante quella di R. Strauss composta per Salomé, dove vi ritroviamo elementi dissonanti e armonie dissociate ma pur sempre tonalissima e riconducibile a qualcosa di noto, grazie ai leitmotive che lo stesso Strauss inserisce in partitura per sottolineare alcuni personaggi o momenti (Jochanaan, Salomè, della loro “relazione”); mai un momento di pausa quindi, di sicuro è risultato impossibile annoiarsi all’ascolto e visione di questo capolavoro, anche se in questa serata, per motivi tecnici, non erano presenti i sottotitoli in Italiano.
La conduzione dell’Orchestra del Teatro Carlo Felice è affidata per questa produzione a Fabio Luisi, uno specialista nel repertorio straussiano, che ha guidato egregiamente un’orchestra molto grande e complessa, di cui si possono tessere solamente lodi per la professionalità dimostrata.
Ottima riuscita quindi per il Teatro Carlo Felice di Genova, sempre alla ricerca di innovazione pur rimanendo nella tradizione, osando quanto basta per cercare di assecondare il pubblico odierno sempre più mutevole nel gusto musicale.
Salvatore Margarone