La lunga notte di Wilson, ovvero il Macbeth al Comunale di Bologna

La lunga notte di Wilson, ovvero il Macbeth al Comunale di Bologna

Il Teatro Comunale di Bologna riprende un propria coproduzione del 2013, fatta con il Change Performing Arts di Milano in collaborazione con il Teatro Municipal di San Paolo del Brasile e realizzata dal regista Robert Wilson, con un cast pressoché invariato e la direzione di un Roberto Abbado veramente in forma.

La scelta di riproporre il Macbeth di Giuseppe Verdi di due anni fa non desta tanto scalpore visto il grande successo riportato allora e il clamore mediatico che ne era seguito. Il teatro di Wilson ha immerso lo spettatore in una atmosfera onirica, costellata da una notte lunga e perenne, che porta il protagonista all’epilogo del suo dramma interiore. La visione registica trasporta la vicenda in un luogo senza tempo, senza luce, se non quella dei neon che sono posti sulla buca dell’orchestra o nelle luci che avvolgono solamente i cantanti. Il teatro kabuki è presente nelle movenze e nel trucco dei protagonisti. Wilson unisce vari elementi dell’occidente e dell’oriente nel tentativo di esprimere al meglio il dramma dei protagonisti. La scena è fortemente minimalista, caratterizzata solamente dal gioco di luci su una base d’oscurità continua; i personaggi, proprio come nel teatro giapponese, si muovono uniformemente, con gesti ripetitivi e pose manierate. Il coro, che rimane di sottofondo, non è mai illuminato ma supporta le azioni anonimamente senza un ruolo scenico ben preciso. Le stesse streghe sono delle ombre scure che reggono una sfera che si illumina; lo stesso corteo regale si trasforma in una sfilata di siluette senza tratti, ma anche gli invitati al banchetto oppure il “popolo oppresso” del terzo atto, nessun volto nessun tratto, ma una massa informe. Il gioco di luci e ombre è stato perciò reso magnificamente dal light designer Aj Weissbard, che ha contribuito non poco a rendere la caratteristica onirica di questo Macbeth: infatti continui sono i riferimenti al buio e alle tenebre come condizione esteriore e, soprattutto, interiore; l’opera è immersa in un buio totale e assorbente, da cui non emerge nulla se non i protagonisti che vengono avvolti da fasci bianchissimi di luce in volto amplificata dal pesante trucco bianco proprio del kabuki. Il minimalismo di Wilson però troppo spesso dimentica elementi propri dell’opera verdiana; la sua ricerca di interiorizzare i personaggi e limitare all’estremo ogni elemento conduce ad una perdita della drammaticità propria del libretto. I personaggi sono mossi come dei burattini sulla scena, senza apparente personalità, ma questa è ampiamente interiorizzata nei due protagonisti, che più con la mimica facciale che con altro sono impegnati a rendere drammatica una vicenda che scenicamente ha perso il suo peso a favore di un estetismo orientale che accentua eccessivamente la staticità, dovuta anche ai rigidi e bellissimi costumi di Jacques Reynaud. Ecco che compare poi un elemento giustificativo della perenne notte di Macbeth: la luna, la luna che avvolge e da spettatrice muta attende agli eventi. La razionalità e la pulizia scenica riescono ad essere persino avvolgenti, come le tenebre di Wilson, gli elementi stilizzati dovrebbero supplire ai vari simboli presenti nel libretto, ma ci riescono in parte e non sempre razionali (come la sedia velata pendente dall’alto che raffigura lo spirito di Banco). Rispetto all’allestimento del 2013 i cantanti hanno avuto modo di padroneggiare meglio la scena in questo anomalo e difficile Macbeth e hanno reso maggiormente ciò che Wilson voleva. Come tutto il suo teatro anche quest’opera non può lasciare indifferenti, o la si apprezza gustandone ogni singolo elemento, oppure si fatica ad entrare in questa ottica registica reputandola noiosa. Rimangono splendide e suggestive alcune idee come alcuni momenti molto evocativi (vedi la scena delle apparizioni o il cielo stellato che accompagna la scena del sonnambulismo), altri poco congrui, ma è uno spettacolo che continua ad affascinare senza se e senza ma. Si potrà discutere sull’opportunità di certe scelte registiche, ma non si può rimanere indifferenti davanti a questo Macbeth.

La lunga notte di Wilson, ovvero il Macbeth al Comunale di Bologna

In piena forma il maestro Roberto Abbado, il vero protagonista della serata, alla guida dell’Orchestra del Teatro Comunale. La sua precisione è encomiabile e la sua autorevolezza emerge ridando alla partitura il suo giusto equilibrio drammatico, elemento che manca alla regia di Wilson. Abbado è capace di recuperare ciò che la scena non dice, ciò che Verdi ha scritto. La sua è una interpretazione personalissima ma efficace e di nerbo; una interpretazione che risente della lunga preparazione e dell’alto livello raggiunto. La sua è stata una direzione energica, equilibrata e di grande respiro, rendendo il suono omogeneo e non coprendo mai i cantanti.

Il coro del Comunale diretto dal maestro Andrea Faidutti, ha dato una prova altamente professionale facendosi notare per passione, drammaticità e libertà di respiro. La scelta registica di relegare il coro nel fondo del palcoscenico non ha minimamente scalfito l’efficacia e la resa, specialmente nel coro “Patria oppressa” cantato con una intensità veramente notevole.

Dario Solari, nel ruolo del titolo, si conferma un personaggio poco definito, anche se la sicurezza vocale è molto migliorata rispetto alla versione 2013. Buon timbro baritonale e voce ampia e sonora.

La Lady di Amarilli Nizza porta inevitabilmente al confronto con Jennifer Larmore, interprete nel 2013. La Nizza è una cantante tendenzialmente verista e sembra sopportar male la veste registica di Wilson. Ma è anche una cantante di grande calibro e riesce ad affrontare il difficile ruolo con disinvoltura. La Nizza possiede una voce notevole che affronta onorevolmente la partitura verdiana, grazie a un buon fraseggio e a una buona coloritura. Efficace la scena della pazzia e gli altri momenti di intensa drammaticità, dovuti più alla bravura della Nizza che non all’essere appieno nel personaggio.

Riccardo Zanellato è un Banco di alto livello, la sua professionalità si esprimono al meglio; la voce è sempre ottimale e la recitazione rivela la lunga e onorevole carriera. Lungamente applaudito.

Lorenzo De Caro è un Macduff leggermente impacciato e dall’emissione non sempre impeccabile, anche se riesce a condurre l’aria “Dalla paterna mano” in modo passionale ed efficace.

Valido il Malcom di Gabriele Mangione, voce giovane e squillante. Efficaci i vari comprimari tra cui si sono distinti Marianna Vinci (Dama di Lady) e Alessandro Svab (il medico).

Ottima accoglienza di pubblico in un Teatro Comunale esaurito.

Mirko Bertolini