E’ apparsa poco condivisibile la scelta, da parte della Fondazione Arena di Verona, di presentare, nell’ambito della stagione invernale 2016/2017 l’opera Pagliacci di Ruggero Leoncavallo, diciamo così, in solitaria in quanto è apparsa furbesca e molto poco attenta all’interesse teatrale della proposta.
Indiscutibilmente la partitura, uno dei pilastri del repertorio, da sempre risulta molto amata dal pubblico di appassionati ( difficile che qualcuno non conosca infatti la romanza “Vesti la giubba” anch’ essa ormai declinata in “Ridi Pagliaccio”) ma presentarla da sola e per di più divisa da un inspiegabile intervallo che ne spezza inevitabilmente l’azione drammatica, non può non far pensare ad un’operazione di marketing che, sfruttando la velocità imposta dai ritmi delle nostre vite, abbia l’obiettivo di proporre uno spettacolo breve, amato, popolare e non troppo ‘pesante’. Sicuramente la Fondazione è in crisi ma non credo che la soluzione della stessa vada a ricercarsi nel pubblico quanto in una serie di scelte che piuttosto che stimolare incuriosendo sembrano piuttosto pascere con proposte demagogiche e di una qualità artistica, almeno nei concetti, a dir poco discutibile.
Detto questo veniamo allo spettacolo.
Lo storico allestimento di Franco Zeffirelli (Stagione 2011/2012 Teatro Filarmonico), sposta l’azione in una periferia del sud italiano anni Sessanta-Settanta animata da ogni sorta di personaggi.
Fedele alla sua formazione, il regista descrive l’indescrivibile ed ingigantisce i concetti per indurre il tutto al meraviglioso e non importa se in questa ridda di pagliacci dorati, bancarelle, lustrini e uomini sui trampoli il dramma di Canio e Nedda finisca in angolo. Certamente, a livello drammatico, il contrasto potrebbe giovare ingigantendo il dramma ma, in questo caso, non è sembrata questa la finalità della narrazione quanto piuttosto la saturazione dell’occhio dello spettatore che, neanche al termine dello spettacolo può raggiungere tranquillamente l’uscita bloccato a sorpresa da numerosi e divertenti clown con lazzi o giocolerie.
La motivazione teatrale di tutto ciò sfugge, resta invece da sottolineare nel grande regista un grande senso della narrazione che sa dipingere luoghi e situazioni con capillare minuzia.
Impegnato nel ruolo di Canio il tenore Walter Fraccaro ne offriva una lettura sostanzialmente monocorde e stentorea anche se professionalmente affrontata a livello vocale e questo sembra, al momento, bastare, resta il fatto che, per interpretare questo complesso ruolo, bisognerebbe andare oltre la superficie e carpirne ed esprimerne il dramma umano che diventa universale e che ne ha fatto uno dei pilastri del repertorio operistico.
Il soprano Donata D’Annunzio Lombardi, dotata di una vocalità sostanzialmente corretta, si mostrava accurata nella resa della caratterizzazione del personaggio di Nedda cosi come il baritono Federico Longhi delineava compostamente il ruolo del suo amante Silvio.
Certamente interessante per vocalità robusta e dal bel colore il baritono David Cecconi restava però in superficie delineando il personaggio di Tonio che, celato dalla sua maschera buffonesca rimane uno dei caratteri più negativi e meschini di un panorama musicale che, dichiarandosi con il manifesto verista nel Prologo, restava però ancorato, per certi aspetti. ai grandi caratteri negativi del melodramma di fine Ottocento e non a caso il primo Jago (Victor Maurel) fu anche il primo Tonio.
Completava il cast Francesco Pittari nel ruolo di Beppe
Al suo debutto al Filarmonico il M° Valerio Galli accompagnava con diligenza l’ Orchestra dell’Arena di Verona che appariva ( ma può forse essere diversamente?) nel complesso assai poco motivata così come il coro diretto dal M° Vito Lombardi.
Sala sostanzialmente gremita e buon successo di pubblico per interpreti e Direttore.
Domenico Gatto