Aida. Verdi. Verona

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Libretto di Antonio Ghislanzoni

Per i cento anni della presenza dell’Aida alla stagione dell’Arena di Verona e per festeggiare il bicentenario della nascita di Giuseppe Verdi una nuova produzione ha solcato il palcoscenico dell’anfiteatro veronese ad opera di La Fura dels Baus. Dobbiamo giustamente premette che in questi cento anni Aida è stata l’opera simbolo dell’Arena e non si può non pensare a questa senza associarle l’opera verdiana. Quante produzioni di Aida hanno visto le mura romane dell’Arena? Parecchie! Quest’anno però la Fondazione dell’Arena di Verona ha voluto dare un taglio nuovo e di novità a questo titolo, affidandolo  appunto a La Fura dels Baus. La Fura dels Baus è una compagnia teatrale catalana nata nel 1979 che ricerca il proprio spazio scenico fuori da quello tradizionale, la base dei loro lavori è composta da una gamma di espedienti scenici che includono musica, movimento, utilizzo di materiali naturali e industriali, applicazione di nuove tecnologie, e il coinvolgimento diretto degli spettatori nello spettacolo. Il tutto dominato da una creazione collettiva, in cui l’attore e l’autore sono un’unica entità. Indubbiamente da questa prestigiosa e originale compagnia non ci si poteva aspettare quello che per cento anni ha incantato il pubblico dell’Arena. Il problema però deve porsi su un altro livello, non tanto se preferire un’Aida tradizionale e avveniristica, ma su cosa voglia dire produrre una regia di opera lirica, poiché un’opera di Verdi non è un musical contemporaneo e le dinamiche musicali e vocali sono completamente all’opposto. I nostri catalani hanno considerato lo spazio dell’Arena come una cornice generica, utile all’idea di un’Aida kolossal giocata fra i poli dello spazio vuoto e della folla. Il tutto, però, secondo una linea di sconcertante indifferenza alla drammaturgia verdiana e alla sostanza psicologica dei personaggi. Non è bastato lo spettacolarismo tecnologico a rendere questa Aida una vera opera lirica. Se ciascun cantante è lasciato a se stesso, libero di non guardare nemmeno il personaggio con cui si confronta e collocato in scena casualmente, se tutta l’attenzione del pubblico viene focalizzata su dettagli più o meno «insoliti» e d’effetto  tecnologico e vagamente fantascientifico, se l’apparato tecnico e il gusto di particolari ininfluenti finisce per prevaricare sulla musica e sul racconto, allora il risultato è uno spettacolo vuoto nonostante tutto il suo apparato, che colpisce ma non emoziona, che rende la musica umile serva della scena. Uno spettacolo che trasforma Verdi come l’autore di una colonna sonora, che si può anche sovrastare come avviene nel primo atto, quando il canto è coperto dai soffi delle dune mobili che si gonfiano, oppure quando la musica è disturbata dal cigolio dei macchinari. L’opera viene “aperta” quindici minuti prima dell’inizio con un inconsueto prologo, che il pubblico non solo fa fatica a capire, ma che nemmeno nota perché indaffarato ad entrare, trovare posto, accendere le tradizionali candele, acquistare bibite e gelati, noleggiare cuscini… un prologo che nessuno nota e che dovrebbe dare un significato diverso alla nostra Aida. Inizia così la nostra opera, in cui si muove una spedizione di archeologi occidentali al comando di figuranti con il piccone in mano, che dovrebbero ricordare lo sfruttamento della manodopera indigena avvenuto durante la costruzione del Canale di Suez (sic!), che imballano i pezzi di una statua ritrovata per spedirli al British Museum. Enormi dune di sabbia gonfiabili vengono poi srotolate al momento dell’aria Ritorna vincitor sulle gradinate del retropalco e gonfiate di seguito ottenendo un bel colpo d’occhio finale. Al centro della scena viene costruito quello che nell’idea della Fura è il bottino di guerra di Radamés, un  monolito (centrale solare?) di 22 metri, che trova il suo completamento nel momento del Trionfo, anch’esso disturbato da tutto questo muoversi di blocchi di specchio che servono a montare sul momento il gigantesco monumento. Luce che allude a Ra, dio del sole egizio, luce come metafora dell’amore autentico e immortale di Aida che trionfa pur nel sacrificio della vita. Difficile dare una definizione a questa Aida! Perché non era Aida, perché si era perso ogni concetto di opera lirica. Una regia può essere avveniristica, minimalista, sovversiva, irrazionale, ma mai perdere di vista che l’opera lirica è fatta di un intreccio di canto e di musica, forse questo lo si doveva dire alla Fura dels Baus. Una trasformazione incredibile in cui la musica dell’orchestra e il canto, anziché essere protagonisti, facevano da sottofondo a tutte le evoluzioni delle numerosissime comparse, quasi fosse un film di fantascienza, ovviamente ispirato alla saga di Star wars (a cui molto esplicitamente sono ispirati i costumi di Chu Uroz). E quando i cantanti – ogni tanto – cercavano di giustificare la loro presenza, erano inscatolati, blindati, sollevati come fossero robot canori e mascherati nelle forme più strane. Vedere (e non dico ascoltare) questo spettacolo era come vedere le Cirque du soleil … non era opera lirica! uno spettacolo che è quasi impossibile da descrivere nei minimi particolari, considerando la successione dei numeri eseguiti, dall’impiego di tutte le tecnologie più moderne, un miscuglio tra arte e tecnica capace di rapire lo spettatore e farlo tornare bambino, inserendolo dal vivo in un grande, appassionante, fumetto. Bello, lo ripetiamo, di effetto, lo ripetiamo, sensazionale (specialmente il terzo atto!)… ma non è Aida! Il pubblico presente era troppo impegnato a considerare, a guardare, a commentare ogni nuova trovata d’effetto per poter ascoltare e concentrarsi sulle note del melodramma.

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Il direttore Omer Meir Wellber, per la prima volta in Arena, ha mostrato una scarsa sensibilità interpretativa e disomogeneità ritmiche.  Si sono altresì notate difficoltà da parte di Wellber nel tenere insieme coro e orchestra. Una direzione sottotono, forse dovuta anche al succedersi di eventi scenografici tali da condizionare anche una buona direzione.
Valido il cast.
Nel ruolo del titolo il soprano cinese Hui He, che ha portato il personaggio verdiano nei principali teatri mondiali. Buon fraseggio, molto nella parte, ottimo accento drammatico, bellissimi i suoi pianissimi e i suoi filati, canto fiero e sicuro, acuti decisi e puliti.
Elena Gabouri ha dato prova di essere nella parte di Amneris, fiera e decisa, voce potente e incisiva.
Jorge de Leòn è stato un Radames un po’ sotto tono, però la sua è una voce sicura e gli acuti ci sono.
Andrzej Dobber da vita a un Amonasro credibile scenicamente, un po’ meno per la voce, di buona tenuta, ma inadatta al ruolo.
Carlo Cigni è un corretto Re, ma nulla di più.
Marco Spotti , in Ramfis, convince pienamente per l’intensità vocale.
Precisi e misurati Carlo Bosi (Il Messaggero) e Elena Rossi (La sacerdotessa).
Gran prova per il coro dell’Arena diretto dal maestro Armando Tasso.

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Indubbiamente una produzione che ha scatenato una serie di polemiche e di elogi, un allestimento che rimarrà in positivo e in negativo negli annali dell’Arena. Un pubblico sempre più internazionale e colpito positivamente per le tantissime trovate sceniche, purtroppo troppo distratto da queste e poco attento ai cantanti, a cui però ha decretato grandi plausi, soprattutto per Hui He.

Interpreti:
Il Re d’Egitto                                                           Carlo Cigni   
Amneris, sua figlia                                                  Elena Gabouri          
Aida, schiava etiope                                               Hui He           
Radamès, capitano delle guardie                         Jorge de Leòn                       
Ramfis, capo dei sacerdoti                                    Marco Spotti 
Amonasro, re d’Etiopia, padre di Aida               Andrzej Dobber       
Una Sacerdotessa                                                   Elena Rossi   
Un Messaggero                                                       Carlo Bosi
Direttore                                                                  Omer Meir Wellber 
Maestro del Coro                                                    Armando Tasso        
Regia                                                 Carlus Padrissa, Alex Ollé/ La Fura dels Baus  
Scene                                                                                    Roland Olbeter        
Costumi                                                                    Chu Uroz       
Assistente alla regia / coreografa                                    Valentina Carrasco 
Luci                                                                          Paolo Mazzon

Coro, Orchestra e corpo di ballo dell’Arena di Verona

Mirko Bertolini